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Così il Qatar inganna l’Occidente (e calpesta i diritti umani)

Pochi paesi riescono ad essere efficienti come il Qatar nel calpestare i diritti umani. Batterlo, poi, è (quasi) impossibile. Tra omofobia di stato, misoginia e persecuzioni religiose, ogni anno il piccolo emirato del Golfo Persico occupa le ultime posizioni delle classifiche sulle libertà civili. Emirato piccolo, appunto, ma dalle risorse economiche immense.

Ed è grazie a queste risorse che il Qatar finanzia da tempo una campagna mediatica straordinariamente efficace a livello globale. All’immaginario di molti è stato proposto così un altro Qatar, edulcorato dei suoi tratti più brutali e repressivi. E la sinistra woke ci è cascata con tutti e due i piedi.

Sin dall’inizio, la campagna di marketing si è dimostrata difficile, perché di lati oscuri da edulcorare ce n’erano troppi. Normale amministrazione, in un paese che adotta la sharia come codice legislativo.

Alcuni analisti hanno però provato a salvarsi in corner definendo quella qatariota una «sharia light». Definizione che ha fatto alzare non poche sopracciglia: light possono essere le bibite gasate, le patatine, i formaggini o altre golosità da happy hour. Un codice teocratico non è certo un prodotto da aperitivo (e tra l’altro, se quella adottata in Qatar è una sharia light, chissà fino a dove si spinge la versione non dietetica).

Non c’è un ambito in Qatar in cui le libertà individuali non siano calpestate, a partire da quelli più banali. Il codice penale punisce ad esempio i bevitori (musulmani) di alcool, come hanno avuto modo di imparare a loro spese diciotto turisti nel solo 2018. Punite anche donne adultere e “fornicatori” di ambo i sessi, mentre l’omosessualità femminile non è punita.

Ma le autorità locali si rifanno alla grande sugli omosessuali maschi: l’aperitivo, per restare in tema cibo, prevede 100 frustate. La portata principale offre invece una scelta a discrezione delle autorità tra la reclusione da uno a sette anni o, in alcuni casi, la pena di morte.

C’è ben poco di light anche nel trattamento riservato a blasfemi ed apostati. Chi è ritenuto colpevole di offese verso i simboli dell’islam (e sono in tanti: gli islamisti non brillano certo per autoironia) viene spedito in carcere per sette anni. Una sorte ancora peggiore spetta a chi fa «proselitismo di altre religioni diverse dall’islam», perché questo reato – riconosciuto in tutti i paesi dove l’islam politico è al potere – viene punito con la morte.

La situazione dei diritti umani lascia ben poco spazio di manovra. Eppure, i media nazionali sono riusciti a portare avanti una campagna comunicativa di successo. La strategia seguita si basa su omissioni e silenzi, con l’attenzione deviata quasi solamente alla politica estera. Se questa operazione di marketing ha avuto successo, gran parte del merito va ad Al Jazeera. O, con maggior precisione, alla sua versione internazionale.

L’emittente, finanziata dal regime qatariota, è difatti divisa in una versione in lingua araba, Al Jazeera Arabic, ed una in lingua inglese fondata nel 2006, Al Jazeera English (poi divenuta Al Jazeera International). Le differenze tra le due non si limitano alla lingua, ma riguardano soprattutto i contenuti e lo stile comunicativo.

Il conflitto israelo-palestinese, ad esempio, è stato un tema che Al Jazeera English ha ampiamente sfruttato per intercettare e guadagnarsi le simpatie della sinistra woke. Tra le emittenti mainstream, Al Jazeera è forse quella che più di tutte ha mantenuto una posizione dura e intransigente verso Israele, tenendo però allo stesso tempo bene in mente quale fosse il suo target.

E così, quando il 27 settembre scorso uno dei principali presentatori di Al Jazeera Arabic, Yusuf al-Qaradawi, passò a miglior vita (anche se non è dato sapere quante vergini lo abbiano accolto) Al Jazeera International si limitò a presentarlo come un famoso studioso dell’islam e un «fiero sostenitore della causa palestinese».

Peccato che il presentatore fosse anche membro di spicco della Fratellanza Musulmana, sulla cui natura fondamentalista l’emittente fu ovviamente ben felice di tacere. Nel suo programma tv Sharia and Daily Life (trasmesso solo sulla versione Arabic) al-Qaradawi esprimeva idee identiche a quelle dell’Isis, e tra i tanti suggerimenti islamicamente corretti vi era quello di frustare o gettare dai tetti gli omosessuali. Dettagli, del resto: un po’ come il fatto che quel famoso pittore austriaco con i baffetti e dall’accento buffo, tra un dipinto e l’altro, si dilettava in pulizie etniche.

Gli attacchi ad Israele da parte di Al Jazeera sono stati e rimangono numerosissimi. Molto spesso nel mirino delle critiche è finita la tendenza dello stato ebraico a fare pinkwashing. Il fatto che Israele presenti la situazione dei diritti lgbt migliore del Medio Oriente (non che i vicini si siano scapicollati per fare di meglio) non sarebbe quindi un fattore di merito. Anzi: si tratterebbe solo di una operazione di facciata messa in atto per far passare in sordina le violazioni dei diritti umani.

L’idea che Israele faccia pinkwashing è molto popolare e non è certo stata Al Jazeera a metterla in circolo. Ma di certo, il fatto che proviene così spesso proprio da quell’emittente un po’ di perplessità la solleva. Su Al Jazeera Arabic le questioni lgbt trovano pochissimo spazio, e forse è anche un bene, perché quello spazio è occupato da fanatici islamisti che invocano repressione e torture. Su Al Jazeera International, invece, si perde il conto dei contenuti a tema arcobaleno, tra reportage sulla “caccia alle streghe antigay” in Africa, articoli sull’omofobia negli Stati Uniti e molto altro ancora.

L’apice viene però raggiunto nel mese di giugno, in cui l’emittente si accoda alle celebrazioni del pride month pubblicando raffiche di tweet pieni di arcobaleni ed unicorni. Parole come gender visibility, achievement ed equality attirano subito l’attenzione dell’attivista medio. Del resto, già la bio è ben studiata: Al Jazeera International si presenta come «un notiziario digitale unico, che promuove diritti umani e uguaglianza, spinge le autorità a rispondere del proprio operato, ed amplifica le voci dei deboli».

Nell’era dei social, è molto facile attirare l’attenzione sulla superficie. L’utente medio che naviga su Twitter e si imbatte in Al Jazeera International avrà l’impressione di trovarsi davanti ad una delle tante pagine della galassia liberal che promuovono i diritti civili, anche se con delle tinte terzomondiste più accentuate. Basta però sbirciare dietro le quinte per cogliere una realtà che è molto più complessa. Se Al Jazeera avesse davvero così a cuore i diritti umani, interverrebbe anche e soprattutto quando vengono calpestati in casa sua. E forse cercherebbe finanziamenti altrove.

Tramite Al Jazeera International, il Qatar segue una strategia doppiogiochista ben precisa: fare da megafono agli islamisti in patria e prodigarsi nel pinkwashing all’estero. L’Occidente, ingolosito dagli idrocarburi, sinora si è sempre voltato dall’altra parte. Ma di certo questo atteggiamento avrà un costo, sia in termini di diritti violati in Qatar, sia in termini di perdita di credibilità.

Simone Morganti

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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