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Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’entra con noi (Terza e ultima parte)

Prima parte

Seconda parte

 

5. Cosa c’entra la Turchia con noi? Alcune conclusioni

Detto questo, è tempo di venire a noi. Non possiamo infatti limitarci a guardare le cose dall’esterno e metterci a tifare i compagni turchi perché tengano la piazza o facciano il “lavoro sporco” per noi. Esaltarci su social network per i sacrifici altrui non ci porterà lontano. Né ci porterà lontano la generosità dei presidi di solidarietà, che pur irrinunciabili, spesso si riducono a mera testimonianza. Bisogna invece essere pazienti e dirsi che la prima cosa che c’è da fare è imparare. Imparare, cioè mettersi a capire quale storia abbiamo in comune con il popolo turco, quali sono le possibili connessioni fra quello che vivono i turchi e quello che viviamo noi ogni giorno, e come trasferire qui Piazza Taksim. Solo a queste condizioni è possibile agire efficacemente, non deprimersi se la rivolta sarà schiacciata, e soprattutto evitare di abbandonarla quando “naturalmente” la Turchia scomparirà dai media.

Il primo punto è allora capire che la Turchia non è un paese distante o arretrato, ma che, al contrario, nella Turchia possiamo leggere la storia del nostro futuro. Tutte le riforme che il paese ha implementato dal 2002 in poi sono quelle che prima Monti e poi Letta hanno realizzato o stanno provando a realizzare qui. Si è concretizzato quello che propongono da noi: in quest’ottica capire il caso turco, e vedere quanta miseria abbia prodotto, ci serve per mettere direttamente in discussione, e con più forza, le misure che il nostro Governo ci propone.

Volete un esempio? Pensiamo a come funzionano i licenziamenti in Turchia: un po’ di preavviso, un’indennità di qualche mensilità calcolata in base all’anzianità, e poi via. È esattamente quello di cui parlavano i nostri padroni quando spingevano per cancellare l’articolo 18, o quello di cui parlano le agenzie internazionali quando “suggeriscono” ai nostri governanti di “agevolare la flessibilità in uscita”!

E ancora, pensiamo al sistema di contrattazione fra imprese e lavoratori: non esiste in Turchia un vero e proprio sistema di contrattazione collettiva nazionale. La contrattazione avviene solo a livello aziendale e non a livello di settore. Questo vuol dire che i lavoratori sono più ricattabili perché sono di meno a trattare, che sono più divisi fra di loro perché si creano contratti e salari diversi azienda per azienda e quindi che non riescono a strappare accordi migliori. È esattamente quello a cui puntano da anni i padroni italiani, Marchionne in primis, quando cercano di spostare sul secondo livello, aziendale e territoriale, tutto il rapporto fra capitale e lavoro. 

Potremmo continuare, ma ci concediamo solo un’ultima analogia. In queste settimane avrete sentito parlare dell’accordo sulla rappresentanza, sottoscritto da Confindustria e da tutti i sindacati confederali, il cui scopo è quello di “blindare” l’accettazione degli accordi, limitando la loro discussione ai soli firmatari di contatto, e impedendo così che prendano spazio i sindacati di base o nuove forme di autorganizzazione dei lavoratori. Ora, indovinate cosa è successo un anno fa in Turchia? Il Parlamento ha cominciato a discutere una proposta di legge che concede il diritto di accedere al tavolo delle trattative solo ai sindacati che superano una soglia di rappresentanza del 3%, calcolata sul totale dei lavoratori di quel settore. Se a questo aggiungiamo che il Governo sta rivedendo al ribasso le statistiche sui lavoratori sindacalizzati, sembra che appena 20 delle 51 organizzazioni sindacali attuali potrebbero mantenere il proprio status negoziale. È esattamente quello che potrebbe succedere fra poco in Italia, visto che da noi la soglia è stata fissata anche più in alto, al 5%...

In secondo luogo, il caso turco ci serve per mettere in questione tutti gli assunti sia degli economisti di destra che di sinistra, sia di quelli che chiedono più crescita, sia di quelli che vogliono l’austerity. E persino di essere critici con alcune formulazioni della sinistra, anche radicale e di movimento, italiana. La Turchia infatti ci dimostra che non ha alcun senso l’opposizione fra crescita e austerity, se non si spiega preliminarmente “crescita per chi e come”. Infatti la Turchia ha avuto sia la crescita che l’austerity, lì si è realizzato quello che oggi chiede il Presidente di Confindustria Squinzi quando, sembrando intercettare il desiderio dei giovani e di larghe fette di popolazione, afferma che ci serve più “lavoro”… non dicendo però (o dicendo in altre sedi) a che prezzo, con che contratti, con che salari. Squinzi è criminalmente seguito dalla CGIL e dagli altri sindacati confederali, e stupidamente anche da alcuni compagni che parlano di “rilanciare l’economia del paese”, senza manco accennare che in un modo di produzione capitalista la crescita è sempre crescita dello sfruttamento, e che non esiste nessun “paese” in comune fra “noi”, che attraverso il lavoro e la fatica produciamo la ricchezza, e “loro”, che se ne appropriano e pensano solo ai profitti. 



In terzo luogo, il caso turco ci permette di capire come funziona un’economia globalizzata e quali sono i legami materiali e niente affatto retorici fra i lavoratori di tutto il mondo. Facciamo un esempio, pescandolo proprio dalla cronaca di questi giorni. A Fabriano e a Teverola, in provincia di Caserta, la storica fabbrica INDESIT vuole chiudere, licenziare gli operai e trasferire la produzione… sapete dove? O in Polonia o in Turchia. E sapete perché? Perché in entrambi i paesi ci sono queste maledette Zone Economiche Speciali, in cui il livello dello sfruttamento del lavoro è vertiginoso. D’altronde, finché il capitale si può spostare dove la sua valorizzazione è più redditizia (e gran parte della sua valorizzazione dipende dal costo del lavoro vivo!), perché non dovrebbe farlo?29 L’unica cosa che può impedirlo è che i disordini in Turchia continuino, e i padroni dell’INDESIT debbano rifarsi i calcoli e mantenere la produzione in Italia! E questo ci porta a una conclusione finale.

Le proteste turche, a ennesima dimostrazione che non siamo di fronte alle convulsioni di un paese povero e in crisi, hanno assunto una forma molto simile a quelle che si verificano nei paesi a capitalismo avanzato. Una forma spontanea, mista, molto lontana dalle grandi mobilitazioni pianificate e organizzate di venti anni fa. Se i compagni che vi sono dentro riusciranno a evitare il doppio rischio della sconfitta per mano di Erdoğan e del recupero per mano del CHP, e riusciranno a costruire un fronte progressista, che si radichi nei gangli della vita sociale, avranno segnato un punto importantissimo anche per noi.

In altri termini, se questa rivolta dovesse avere, com’è stato in Tunisia e in Egitto, una ricaduta sui posti di lavoro, se gli operai riusciranno a strappare ad esempio salari più alti e migliori diritti, allora i capitali avranno più difficoltà a spostarsi, più difficoltà a delocalizzare le fabbriche e dunque ad avviare processi di competizione al ribasso fra gli operai europei. È lo stesso motivo per cui ai lavoratori turchi “conviene” che noi continuiamo a lottare per tenere i salari italiani più alti dei loro, perché così possono chiedere di più…  

In questo senso si può ben dire che la lotta dei turchi è la nostra lotta, e la nostra lotta è la lotta dei turchi. E possiamo affermare lo stesso per quello che accade in Polonia, in Egitto o in Cina: noi ci avvantaggiamo di tutto quello che succede di buono ai proletari di tutti i paesi. Non è un caso che gli eventi turchi sono stati capiti e sostenuti proprio in quei paesi che hanno conosciuto forti mobilitazioni rivoluzionarie – pensiamo ai comunicati di solidarietà con la rivolta turca che hanno lanciato i sindacati indipendenti egiziani30. Ogni avanzamento del proletariato, in qualsiasi parte del mondo avvenga, è direttamente un rallentamento dell'attacco che arriva a noi, perché la leva della competizione e della concorrenza fra forza-lavoro, che è il primo strumento del capitale per dominarci, viene disarticolata.
E questo dimostra nei fatti il valore, ancora più necessario oggi, dell'internazionalismo.

 

 

Note


29. Assumere questa prospettiva ci fa anche capire quante scemenze si siano dette in questi anni sulla “scomparsa della classe operaia”: in realtà è il capitale a spostarsi dove è più conveniente. Basta che si diano le giuste condizioni di profittabilità (come successo in Germania o negli USA negli ultimi anni, che non sono certo paesi del “terzo mondo”) ed ecco che il manifatturiero riparte, le fabbriche riaprono, se ne aprono pure di nuove. Per avere questo “miracolo” basta “solo” aumentare il tasso di sfruttamento, e dare incentivi e vantaggi di tutti i tipi alle imprese. Come dire, alle condizioni di Squinzi e Marchionne possiamo avere tutto il lavoro che vogliamo!
30. MENA, Solidarity Declaration from the Egyptian Federation of Independent Trade Unions to the workers of Turkey, 5 giugno 2013.

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