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Cosa è di Destra o di Sinistra nell’era della transizione?

Una “polemica disordinata” di Giorgio Ferrari.

Pochi giorni fa, con due atti delegati, la Commissione europea ha deciso di estendere la produzione di idrogeno ad altre fonti di energia – oltre le rinnovabili – che non implichino l’uso di combustibili fossili: in pratica al nucleare.

 

Ora toccherà al Parlamento europeo ratificare o meno questa decisione, ma non c’è dubbio che essa si inserisce nel percorso di rilancio dell’energia nucleare in sede europea certificato con l’inserimento nella tassonomia “verde” di nucleare e gas nei primi mesi del 2022 e poi ratificato dal Parlamento europeo.
Dal canto suo il governo italiano, che nel maggio scorso aveva approvato due mozioni favorevoli alla partecipazione e allo sviluppo di progetti in campo nucleare, ha votato a favore di questa ultima decisione della Commissione europea.

Questi avvenimenti si collocano in una fase in cui il programma di avvicinamento alla neutralità climatica (prevista al 2050) incontra una serie di ostacoli sia di carattere realizzativo che politico, riconducibili – secondo alcuni commentatori – a quel negazionismo climatico tanto caro alla cultura conservatrice che nell’avanzata dei partiti di destra in parecchi paesi europei (e non solo), trova la sua naturale espressione.

George Monbiot, impegnato divulgatore di tematiche ambientali nonché apprezzato esponente del giornalismo di denuncia (nel 2022 gli è stato assegnato il premio Orwell), ha scritto un appassionato articolo sul Guardian del 15.06.2023 in cui, senza mezzi termini, attribuisce ai governi di destra la responsabilità dell’impasse nelle politiche ambientali.
Scrive Monbiot: “Mentre milioni di persone vengono cacciate dalle loro case a causa dei disastri climatici, l’estrema destra sfrutta la loro miseria per estendere la propria portata. Man mano che l’estrema destra guadagna potere, i programmi climatici vengono interrotti, il riscaldamento accelera e sempre più persone vengono cacciate dalle loro case.
Se non interrompiamo presto questo ciclo, esso diventerà l’elemento dominante dei nostri tempi”.
A fare le spese di questo atteggiamento, dice Monbiot, saranno le popolazioni più povere del mondo costrette ad emigrare per non morire perché “gli imprenditori della guerra culturale” contro le politiche ambientali si oppongono a qualsivoglia cambiamento razionale nelle abitudini dei paesi ricchi e ciò significa che “La negazione della scienza del clima, che era quasi svanita qualche anno fa, è ora tornata per vendicarsi. Gli scienziati e gli attivisti ambientali sono bombardati da affermazioni secondo cui sono tirapiedi, truffatori, comunisti, assassini e pedofili.”

Di analoga impostazione, ma più argomentato, è l’intervento di Mario Agostinelli sul Fatto quotidiano del 9.06.2023 in cui l’autore scrive: “Non era certo prevedibile, prima della pandemia e della guerra in Ucraina, che l’Ue rallentasse il suo cammino da apripista dell’abbandono dei fossili. […] Il percorso della decarbonizzazione sta incontrando ostacoli non previsti. Non tanto per la scontata ostilità delle “Big Oil”, quanto per la presa di distanza di forze di destra emergenti, che si caratterizzano, oltre che per l’arretramento sul fronte sociale, anche per un comportamento negazionista riguardo al cambiamento climatico. La loro è, in particolare, una dichiarata resistenza contro la mobilità elettrica e la penetrazione inarrestabile delle rinnovabili nel mix energetico di nazioni in cui cresce la loro rappresentanza.”
Dopo aver sottolineato la natura antiscientifica di queste politiche di destra, Agostinelli scrive che “Gli interessi che collegano grande capitale e orientamento politico antiambientalista vengono portati alla luce sotto forme e narrazioni nuove rispetto al passato” la cui sintesi è riassumibile in una visione del mondo in cui “il benessere della popolazione (in ovvia coincidenza con la massimizzazione dei profitti per le imprese), verrebbe assicurato solo con il ricorso ad ulteriore combustione di gas integrata da una disseminazione territoriale di “nucleare pulito”, sotto forma di grandi e piccoli reattori.” Quest’ultimo richiamo al nucleare si collega, non a caso, all’atteggiamento del governo Meloni che, con le due mozioni parlamentari sopra citate, vorrebbe riaprire la strada ad un ritorno del nucleare in Italia.

Ora, al di là del fatto che Agostinelli è un antinucleare mentre Monbiot non lo è più (nel 2015 è divenuto un convinto filo nucleare) e di certe frasi imbarazzanti di quest’ultimo, secondo cui gli attivisti ambientali sarebbero etichettati come assassini, pedofili e persino comunisti (absit iniura verbis!), mi sembra che questi due interventi seguano un comune ordine narrativo non scevro da affermazioni apodittiche, a cui cercherò di opporre un po’ del mio disordine.

Il nucleare è di destra; la decarbonizzazione è di sinistra

Credo di aver scritto abbastanza sul plausibile destino del nucleare nel mondo per cui non posso che raccogliere la sollecitazione di Agostinelli a non restare indifferenti di fronte alle “voglie” nucleariste del governo Meloni.
Tuttavia mi colpisce il fatto che in entrambi gli articoli sopra citati, emerga la costruzione di un assioma secondo cui la decarbonizzazione sarebbe di “sinistra”, mentre l’uso del gas sarebbe di “destra” con l’aggiunta del nucleare, secondo le argomentazioni di Agostinelli.

Che il nucleare sia di destra è quantomeno risibile, dato che storicamente il sostegno maggiore a questa tecnologia origina proprio da formazioni di sinistra (comunque non di destra) in tutto il mondo sviluppato: i laburisti in Inghilterra, i socialisti in Francia, i Democratici negli Usa (con l’eccezione di Jimmy Carter) e il Pci in Italia.
Con un’aggravante per quanto riguarda il Pci: quella di accusare di antiscientificità tutti coloro che ne contestavano validità e fondatezza fin dagli anni ‘70 del secolo scorso.
Potrei fare un elenco di nomi (per esperienza diretta e personale) in cui compaiono i maggiori esponenti del Pci, della Cgil e della Fiom.
Nè si può argomentare che questi siano atteggiamenti remoti, di un passato politico che non c’è più, perché nel 2010-2011 – prima e dopo l’incidente di Fukushima – una larga parte dell’intellighentia di sinistra (scienziati, ricercatori e politici) produsse due lettere: una indirizzata al Presidente della Repubblica, l’altra indirizzata a Pier Luigi Bersani (all’epoca segretario del PD) in cui, appellandosi alla “ragione”, si chiedeva di non cedere all’emotività e di “non chiudere le porte al nucleare, di non cedere a tentazioni demagogiche e antiscientifiche”.

Dal secondo referendum antinucleare ad oggi, questi atteggiamenti sono stati sopiti, ma non rimossi definitivamente, né fra la “sinistra” italiana né altrove: lo stesso Obama, a cui si attribuisce il merito di una maggiore attenzione alle politiche ambientali, fu convinto sostenitore della necessità di rilanciare l’energia nucleare, scelta consolidata da Trump sotto la cui presidenza fu approvato (2020) il “Restoring America’s Competitive Nuclear Energy Advantage- A strategy to assure US national security”, con il voto favorevole di quasi tutti i senatori Democratici.

Dunque il rilancio del nucleare non è attribuile tout court alla “destra” e se oggi esso appare – unitamente all’impasse nelle politiche di decarbonizzazione – come ostacolo alla transizione energetica, c’è da interrogarsi, se mai, sui presupposti e sulle modalità con cui “questa transizione energetica” è stata presentata e sostenuta dall’insieme dei movimenti ambientalisti, al netto di peculiarità o distinguo che ogni singola organizzazione potrà rivendicare, ma che, a mio parere, non intaccano la sostanza del problema.

Il clima, questo sconosciuto

In principio era il verbo, ovvero l’IPCC (International Panel on climate change) che ha fortemente influenzato l’atteggiamento dei movimenti per il clima: alzi la mano chi non ha citato – a fondamento delle sue argomentazioni – gli scienziati del clima o i dati da questi prodotti, peraltro ignorando altre imbarazzanti raccomandazioni contenute nei loro rapporti.

E’ qui che nasce, dopo il 2013, il mantra del gradiente medio della temperatura terrestre (aumento del 1,5-2 °C rispetto ai livelli pre industriali) che non deve essere superato pena lo sconvolgimento irreversibile dell’equilibrio nella biosfera.
Fino a quella data le previsioni del IPCC avevano tutt’altro segno: il primo rapporto dell’IPCC, pubblicato nel 1990, descriveva le prospettive di una rapida disintegrazione della calotta glaciale dell’Antartide occidentale come “improbabile nel prossimo secolo”, e fino ai primi anni 2000 le previsioni sui principali indicatori dei cambiamenti in corso sono risultate decisamente sottostimate.

Emissioni – nel 2001, l’IPCC stimava (con elevato livello di confidenza) che nel 2010 le emissioni totali si collocassero tra 7,7 e 9,7 miliardi di tonnellate di carbonio/anno, mentre alla prova dei fatti le emissioni dei soli combustibili fossili ammontarono a 9,1 miliardi di tonnellate di carbonio. Ciò ha comportato una sottostima del gradiente medio della temperatura terrestre dato che esso è fortemente ancorato alla concentrazione di CO2 nell’atmosfera.

Scioglimento dei ghiacci – l’IPCC riteneva, con una certa sicurezza, che le calotte polari fossero al sicuro almeno fino al 2050, ma poi ha dovuto rivedere queste stime perché il ghiaccio si sta assottigliando più velocemente di quanto previsto, e oggi gli scienziati paventano un Artico libero dai ghiacci tra anni, non decenni. Conseguentemente anche le stime sull’innalzamento del livello dei mari hanno subito significative variazioni ed oggi ci troviamo a ipotizzare quante e quali città costiere saranno inondate dalle acque entro la fine del secolo.

Acidificazione degli oceani – Questo parametro è stato ignorato dal IPCC fino al 2007, quando ne ha stimato l’aumento tra 0,14 e 0,35 unità di pH entro il 2100. Oggi, preso finalmente atto che il 30% della CO2 emessa in atmosfera viene assorbita dagli oceani, non si è più in grado di stimare di quanto sarà l’aumento del pH nei prossimi decenni, ma già si sa che dal 1970 ad oggi è aumentato di 0,1 unità di pH. Tipping point- I tipping point sono i punti di non ritorno, vale a dire quelle manifestazioni critiche, non lineari, in cui il sistema climatico mostra di passare bruscamente da un equilibrio ad un altro.


Tipiche espressioni ne sono gli hot point che si manifestano sul pianeta, specialmente nell’emisfero Nord, con punte di temperatura inusitate. Ancora oggi non si è in grado di stabilire con certezza se una certa soglia climatica è stata superata rendendo il fenomeno irreversibile: un Artico libero dai ghiacci, il rallentamento della circolazione nell’Oceano Atlantico settentrionale o cambiamenti permanenti nei modelli meteorologici su larga scala.

Ovviamente qualsiasi scienziato sosterrà, con ragione, che non non esistono modelli computerizzati perfetti in quanto essi sono tutte rappresentazioni incomplete dei fenomeni naturali, in cui l’incertezza è sempre presente.
Ciò non toglie che l’IPCC abbia sottovalutato le osservazioni fatte sul campo (oggi molto più diffuse ieri) fornendo una informazione incompleta che alla luce delle ultimissime proiezioni, fa supporre che essa sia stata stata politically oriented.
Come è possibile infatti, che nell’arco di dieci anni (2013 -2023) si sia passati da un pronostico allarmante ma ancora rimediabile (se l’aumento di temperatura non supererà la soglia di 1,5-2 °C, entro la fine del secolo, l’equilibrio potrà essere recuperato), ad uno che dà per molto probabile questo superamento, mettendo in conto che l’aumento della temperatura media terrestre possa raggiungere i 3 °C, come si evince dal IPCC’s Six Assessment Report -AR6, del 2023?

Azzardo due ipotesi.
La prima è che la modellistica usata, nonostante la maggiore disponibilità di dati provenienti da misurazioni sul campo, sia inadeguata e quindi abbia ancora una volta sottostimato i trend delle grandezze in gioco, cosa che metterebbe seriamente in discussione la credibilità del IPCC.
La seconda è che le risultanze oggi esposte nel Six Assessment Report -AR6 fossero già note da tempo, ma che non si vollero presentare nella loro crudezza perché gli assetti globali del sistema mondo (istituzioni, governi, capitali industriali e finanziari) non sarebbero stati in grado di affrontarli.
Probabilmente nessuno ricorda il climategate che, immediatamente prima del vertice di Copenaghen sull’ambiente (2009) e fino al 2011, colpì l’IPCC accusato di assecondare la lobby ambientalista, esasperando le cause e gli effetti dei cambiamenti climatici.

Quello che voglio dire, in buona sostanza, è che l’IPCC in quanto ente intergovernativo, non è un organismo del tutto indipendente, ma decisamente influenzato da indirizzi politici che ne hanno condizionato l’operato, non nel senso di alterare i dati, ma di presentarli nel modo più consono acciocchè gli equilibri internazionali e l’opinione pubblica non ne venissero sconvolti.
E la modalità è stata quella, in una prima fase, di dare un allarme ma nello stesso tempo dire che il peggio si poteva evitare se si adottavano certe misure (riduzione dei combustibili fossili, energie rinnovabili, energia nucleare e sequestro di CO2) con l’obiettivo di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.
Oggi che l’insieme dei paesi più industrializzati ha accettato sostanzialmente (sia pure con diversi tempi e approcci) di procedere su questa strada, si dice all’opinione pubblica che gli effetti della mitigazione non saranno comunque in grado di impedire ulteriori peggioramenti del clima per cui bisognerà mettere in atto misure di adattamento al nuovo clima (geoingegneria, ma non solo).
Siamo dunque prossimi alla capitolazione climatica perché alcune soglie critiche sono già state raggiunte e superate (tipping point) e il ritorno ad un equilibrio precedente, anche nell’ipotesi di azzerare repentinamente le emissioni, avverrà con tempi assai maggiori di quelli che hanno portato a questo cambiamento, cosa peraltro già verificatasi 140 mila anni fa, quando la concentrazione di CO2 e la temperatura terrestre avevano raggiunto i valori odierni per cui ci vollero migliaia di anni per ritornare alla situazione precedente (vedi grafico).

Di questo abbiamo scritto ripetutamente Angelo Baracca ed io, non perché appassionati di catastrofismo, ma perché riteniamo che occorra un approccio sistemico all’attuale crisi climatica non limitato al solo uso delle fonti di energia.
E qui risiede il mio dissenso dalle argomentazioni di Monbiot e Agostinelli.

Il rosso vince sull’esperto (o almeno dovrebbe)

Cinquanta anni fa il primo organico rapporto sulla salute del pianeta e sul destino dell’umanità si intitolava “I limiti dello sviluppo” arrivando a delle conclusioni (comunque le si giudichino) che prevedevano uno stop alla crescita della popolazione e al PIL. Pochi anni dopo il rapporto Nord – Sud (rapporto Brandt) completava l’analisi del primo giungendo alla conclusione che la disuguaglianza sociale tra paesi ricchi e paesi poveri doveva e poteva essere sanata con alcune misure (annullamento del debito dei paesi poveri, devoluzione di una parte del PIL dei paesi ricchi ai paesi poveri, etc)

Di questi aspetti non c’è traccia alcuna nei rapporti del IPCC. Ammesso e non concesso che non sta agli scienziati occuparsi di queste cose (Heidegger diceva che la scienza non pensa, perché non è suo compito), non si capisce perché anche i movimenti ambientalisti vi abbiano rinunciato, interpretando la transizione energetica (che inizialmente si definiva ecologica) come esclusiva surrogazione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.
E la produzione (merci, oggetti, armamenti), il sistema dei trasporti, l’avere e il non avere che affligge l’umanità?
Abbondano le critiche agli stili di vita, si insiste sulla colpevolizzazione del singolo, ma non c’è mai una critica esplicita al capitalismo verso cui ci si limita a rivendicare l’economia circolare e il riciclo.
Quanto alla mobilità elettrica che sarebbe osteggiata dalle destre, se l’alternativa è quella rivendicata nel documento “Alleanza clima lavoro” firmato da Fiom, Lega ambiente, WWF e Green Peace lo ritengo l’ennesima velleità di insegnare ai padroni il loro mestiere, essendo tutto rivolto a ristrutturare il settore “automotive” all’insegna della imperitura dominanza del mezzo privato (naturalmente elettrico!) ivi compreso il trasporto su gomma, mentre poco o nulla si dice del trasporto ferroviario.
E non che questa della mobilità sia la contraddizione maggiore che io vedo nell’idea di transizione energetica che va per la maggiore, perché non c’è ancora risposta ne attenzione alla questione dell’estrattivismo che essa porta con sè, al fatto che aumenterà la disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri (che non hanno fondi per pagare i costi della transizione) e per il fatto che l’Europa, l’apripista dell’abbandono dei fossili, raggiungerà i suoi obiettivi sfruttando l’Africa come una colonia (o magari la stessa Ukraina) per produrre elettricità e idrogeno da importare in casa propria.

Che ne pensano i movimenti ambientalisti di queste contraddizioni?
Si rendono conto che l’Italia sarà l’hub energetico tra l’Europa e l’Africa, non perché lo ha detto Meloni, ma perché serve alle multinazionali europee che investono sul green, serve a Bruxelles per farsi vanto di aver raggiunto gli obiettivi della decarbonizzazione.
Qualcuno sta mettendo i bastoni tra le ruote della transizione?
Certo che sì; e come potrebbe essere diversamente? Forse che l’avvento della macchina a vapore e poi di quella a scoppio non sono stati osteggiati dagli allevatori di cavalli, dai servizi di posta, dagli spalatori di sterco delle grandi città, per non parlare dei luddisti?
Il progresso capitalistico non ha mai un percorso lineare, perché i singoli capitalisti sono sempre in competizione tra loro, ma la parte vincente, storicamente, è sempre stata quella che ha scelto l’innovazione tecnologica e così sarà anche in questa circostanza, anche perché le Big oil stanno tutte investendo nelle tecnologie verdi o nell’industria 4.0. Perchè dunque correre in soccorso dei vincitori?

Dietro i paraventi del negazionismo climatico, degli attentati alla libertà degli individui e altre “armi di distrazione di massa”, si cela uno scontro di interessi intercapitalistici che non esclude il ricorso al colonialismo e alla guerra pur di accaparrarsi le materie prime necessarie alla transizione energetica, comunque la si voglia intendere.
Se non si può restare indifferenti di fronte alla scelta del governo Meloni di riaprire il dossier nucleare, tanto meno si possono ignorare le contraddizioni e i rischi che questa transizione energetica porta con sé.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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