Coronavirus | La pandemia è (anche) una questione di classe
Olivier Ertzscheid ha un cognome impronunciabile ed è un ricercatore francese in Scienze dell’Informazione e della Comunicazione (Sic) (fa parte degli autori che devo conoscere per passare il concorso pubblico da insegnante, per dire): la finezza della sua analisi è rara, a mio avviso (LEGGETELO ;). Anyway: sul suo blog Affordance.info, ha messo insieme (in maniera intelligente) pensieri che sto facendo, in maniera meno intelligente, da un paio di settimane a questa parte. “La pandemia è una questione di classe”?. “Anche”, lo aggiungo io.
Cito — traduzione mia, e vi assicuro che ho sudato perché Ertzscheid non solo ha una prosa ricercata, ma quello che dice è complicato — e cerco, il minimo indispensabile, di semplificare:
«L’isolamento è per i le classi dominanti e i borghesi in telelavoro dai loro giardini — e io ne faccio parte naturalmente — una finestra, un momento di respiro, una pausa; per le classi subalterne è un’arena, si tratta di sopravvivenza».
(…)
«La distanza sociale agisce sulla distanza spaziale. Quest’ultima co-determina la capacità sociale di distanziazione, a maggior ragione se questa non è la conseguenza di un obbligo. In soldoni: l’immagine che viene data di te cambia se sei un potente o un poveraccio; sei un incivile solo se sei un poveraccio, insomma.
Ed è proprio lì dove una distanza di classe si mette in opera che è essenziale capire e analizzare, per evitare le stigmatizzazioni e gli essenzialismi.
Per le classi più ricche e istruite, la riduzione della distanza spaziale non ha un impatto causale sulla riduzione della distanza sociale. Le interazioni rimangono, sia familiari che professionali, diventando perfino più ricche.
Alle classi più povere e fragili, al contrario, non solo non è consentito il confinement allo stesso modo che per le classi dominanti — per esempio nelle spazi di vita tradizionali, pensiamo ai migranti senza documenti che vivono gli spazi pubblici; o ad per i lavoratori (operai ad esempio, o impiegati della grande distribuzione) per cui il lavoro è uno spazio di vita e sopravvivenza — ma in più quando hanno accesso alla quarantena (o al permesso di averla) questa riduzione della distanza spaziale ha un impatto maggiore e causale nella riduzione della distanza sociale»
E, infatti, il 10% delle multe in Francia a chi non rispetta le regole del confinement sono state fatte in Seine-Saint-Denis: 135 euro ad infrazione. La Seine-Saint-Denis è un dipartimento francese — quello dove vivo, Aubervilliers ne fa parte — che si trova a nord di Parigi. È il quinto dipartimento più popolato di Francia e il più giovane per età media della popolazione.
Ci sono diverse grandi azienda impiantate qui (Veolia, Vinci, BNP Paribas, SFR…) e un aeroporto (Charles de Gaulle). Ciononostante è il dipartimento con il livello di vita più basso di Francia: 3 abitanti su 10 vivono al di sotto della soglia di povertà (il tasso di povertà è del 26,9% mentre la media francese è del 14,3%) e il tasso di criminalità è il più alto del Paese.
Il rispetto del confinement qui è complicato ma non perché gli abitanti sono “indisciplinati” come ci racconta la stampa. Perché gli spazi di socializzazione — e di sopravvivenza — fanno che per molti il confinement non è praticabile.
E resta il fatto che la comunicazione del governo francese, fino pochi giorni prima del lockdown, è stata «non uscite di casa» ma «andate a votare», per esempio.
“La romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe” dice una foto che gira sui social da qualche giorno. Il diario dalla quarantena di chi è in campagna e guarda l’infinito riflettendo sui destini dell’umanità è un privilegio di classe.
D’altronde Alberto Moravia non ha scritto un romanzo durante la sua esperienza di sfollato durante la Seconda guerra mondiale?
E pure io, anche se non posso parlare di “classe dominante” per questioni di reddito, sono privilegiata: a differenza di tanti non vivono in uno studio (a Parigi ci sono persone che passeranno questo periodo in 9, 12, 17, 20 metri quadrati) ma ne ho ben 44 di metri (che lo so che vi sembra un buco — e lo è — ma in questa città è un privilegio); posso fare del télétravail (o smart working come dicono quelli cool), sono una semi impiegata pubblica, seppur precaria, e ho il tempo di scrivere queste minchiate.
Questo pezzo fa parte di un diario che tengo qui
Photo: Ericailcane, “Le libertà fondamentali”/Instagram
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