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Corea del Nord e Iran: due scenari, nessuna strategia

La recente scelta del Presidente statunitense Donald J. Trump di bloccare la certificazione del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto tra Teheran e la comunità internazionale nel 2015, e di aprire la strada verso la reintroduzione di sanzioni statunitensi contro la Repubblica Islamica testimonia l’assoluta mancanza di una vera e propria linea guida strategica nell’azione nei confronti dell’Iran.

di Andrea Muratore

Principale obiettivo delle mire dei falchi neoconservatori di Washington e delle manovre a lungo raggio di inizio millennio che, dopo l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan, miravano al suo completo accerchiamento, l’Iran è risultato in ultima istanza il grande vincitore della bagarre degli ultimi quindici anni. La defenestrazione del regime rivale di Saddam Hussein ha aperto la strada all’avvicinamento dell’Iraq a guida sciita a Teheran, la vittoriosa resistenza di Hezbollah contro l’aggressione israeliana nel 2006 ha indebolito la morsa sionista sul Libano e la formazione della solida alleanza tra Teheran, il legittimo governo siriano, lo stesso Hezbollah e il governo iracheno ha portato alla costituzione di un “asse della Resistenza” contro le mosse dello Stato Islamico e i piani sponsorizzati da Washington e dall’Arabia Saudita di riqualificazione dei confini e delle entità statali del Medio Oriente.

A ciò si aggiunge il rafforzamento dell’asse geopolitico con la Russia e un crescente interessamento per la Repubblica Islamica da parte di attori come Cina e India, interessati rispettivamente a sviluppare la grande strategia della “Nuova Via della Seta” e a controbilanciare il legame tra Pechino e il Pakistan, che hanno fatto di Teheran un player dinamico nello scacchiere internazionale.


Tale excursus risulta utile per dimostrare quanto possa risultare fallace il tentativo di Trump di tentare un’anacronistica strategia di indebolimento e isolamento del rivale iraniano, che si inserisce nel quadro più generale di un piano mediorientale che fa acqua da tutte le parti in quanto tutt’oggi imperniato sull’alleanza granitica con Israele (ribadita nel recente, penoso caso dell’abbandono dell’UNESCO) e sulla vicinanza all’ambigua Arabia Saudita che, dal canto suo, prova a rimediare agli errori del recente passato tentando una normalizzazione delle relazioni con la Russia.

L’agenda Trump risulta eccessivamente condizionata dall’influenza degli alti consulenti militari dell’amministrazione (come il National Secuirty Advisor H. R. McMaster) e dal revanscismo degli apparati neoconservatori che hanno il loro più attivo esponente nell’Ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Nikki Halley: il manifesto di questa non-strategia geopolitica è stato il discorso di Trump all’Assemblea Generale dell’ONU, nel corso del quale il Presidente ha attaccato con un rapido fuoco di fila il suo personale “Asse del Male” composto da Siria, Iran, Venezuela, Cuba e Corea del Nord dimostrando, al tempo stesso, la reale mancanza di un filo conduttore nell’azione di Washington.

La condotta degli USA nei confronti dell’Iran, infatti, richiama da vicino quella erratica mostrata nei confronti della Corea del Nord: alle acrobazie missilistiche di Kim Jong-un, infatti, Washington rispondeva con le rigidissime prese di posizione di Trump nei confronti di Rocket Man e con richiami perentori a una completa rinuncia da parte di Pyongyang al suo arsenale balistico che certamente non hanno aiutato a favorire un clima di distensione. Il fatto che la Corea del Nord potesse contemplare lo sviluppo atomico come la necessaria risposta alla presenza di un agguerrito dispositivo di forze a stelle e strisce nello scacchiere del Pacifico non è stato preso in considerazione dall’amministrazione, che a sua volta per bocca dell’ineffabile Halley ha qualificato come irresponsabili gli inviti di Pechino a barattare lo stop della “corsa all’atomo” di Pyongyang con la fine delle esercitazioni militari americane. in Corea del Sud. L’esibizione muscolare di forza, fine a sé stessa, è preferita alla mediazione, tanto nei confronti dell’Iran quanto in relazione alla Corea del Nord.

E ora, come fa notare Lorenzo Vita su Gli Occhi della Guerra, la criticabile scelta di Trump sul JCPOA rischia di provocare ripercussioni sul lato opposto dell’Asia e far precipitare la crisi tra Washington e Pyongyan: “al netto delle differenze evidenti fra Corea del Nord e Iran, l’idea di arrivare a un compromesso internazionale con i maggiori Stati del mondo e Pyongyang, sul modello (pur limitato) del JCPOA, era una base abbastanza solida per dimostrare che c’era una via per arrivare alla fine di un programma atomico senza dover passare per la minaccia armata o direttamente alla guerra”, mentre allo stato attuale delle cose bisogna chiedersi quale possibilità ci sia per la realizzazione di un progetto del genere dopo che la diplomazia USA ha dimostrato tutta la sua rigidità e la sua scarsa lungimiranza.

 

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