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Contesti comuni e specchi statistici

Perché la statistica? La statistica è ormai parte della matematica, come sanno bene gli studenti che la includono come materia nel loro piano di studi. E già la matematica è poco gradita, figuriamoci la statistica, che spesso viene presentata come una collezione di indici e di formule, con l’ingrata sorte di essere scarsamente compresi ed apprezzati. Sappiamo però che la statistica, scienza dello Stato, nasce dall’esigenza di rappresentare, e poi di gestire, una grande massa di dati con pochi indicatori equivalenti (a cominciare dalle percentuali, ma certamente non limitandosi ad esse). Ed i metodi statistici sono ormai divenuti, da Galileo in poi, strumenti irrinunciabili di analisi nella scienza moderna, in quanto consentono di dedurre dai dati sperimentali informazioni sul fenomeno sottostante che li genera, sul “contesto comune” che li lega. In effetti, l’essenza dell’approccio scientifico allo studio dei fenomeni propri della realtà che ci circonda è la ricerca del rapporto tra costanti e variabili, nell’individuazione cioè di regolarità sottostanti la variabilità dei dati provenienti dall’osservazione sperimentale dei fenomeni stessi. In altre parole, di contesti comuni (di leggi, di modelli matematici) che colleghino i dati tra loro, e li “spieghino”, includendo tutte le proprietà da essi condivise e lasciando fuori soltanto la loro residua fluttuazione individuale.

Si fornisce così una rappresentazione del fenomeno equivalente a quella costituita dal complesso dei dati stessi, ma ben più comoda da maneggiare e soprattutto molto più espressiva e piena di significato. Ora mi sembra che il paradigma costituito dalle idee portanti e dai punti qualificanti di un approccio scientifico supportato dalla statistica può ritrovarsi anche in altri campi dove sia di rilievo l’elaborazione di più contributi al fine di individuarne il contesto comune. Questo consente di gettare luce su importanti aspetti dell’attività umana, di suggerire spunti di riflessione e di discussione meritevoli di un adeguato approfondimento, e di offrire la possibilità di una migliore comprensione di concetti e proprietà fondamentali tipici degli aspetti suddetti. E’ il punto che cercherò di sostenere con alcuni riferimenti specifici.

 

Il giornalismo partecipativo

Come primo campo di esame, vorrei considerare una forma di giornalismo che è protagonista di un crescente interesse e di una crescente diffusione: il giornalismo partecipativo (o “citizen journalism”). In realtà, sotto il termine di giornalismo partecipativo sono anche compresi comportamenti disordinati di singoli o di gruppi che immettono in rete, anche per semplice protagonismo, informazioni non fondate o non meditate. Mettendo questi comportamenti da parte, intendo qui con giornalismo partecipativo iniziative coordinate di cittadini orientate all’approfondimento di un certo tema, di una certa “notizia”. E naturalmente la rete è oggi lo strumento principale (ma non il solo) per la trasmissione dei contributi e per la comunicazione, elaborazione e discussione. Proviamo ora a leggere l’attività di giornalismo partecipativo con la filigrana della ricerca scientifica, e della metodologia statistica, considerando che in questo scenario i dati sono ovviamente i contributi provenienti dai cittadini, ed il contesto comune è la notizia, il fatto, al quale i contributi stessi fanno riferimento. Come nella ricerca scientifica, anche qui vi è un punto di partenza costituito da un indizio, uno stimolo, un sospetto, un campo di azione (individuati ad esempio da un giornalista professionista, da un accadimento, o dalla disponibilità di un sostegno economico specifico, o da altro ancora). La differenza è che ora come ambito di azione non si ha più la “realtà” esterna non modificabile dall’intervento del’osservatore; qui la “realtà” (la notizia) interagisce profondamente con i cittadini.

Infatti, sono questi ultimi, con i loro contributi, a dirigere l’evoluzione verso quello specifico contesto (quel “fatto”) individuato dalla proprietà di riassumere quanto, su un certo tema, è ritenuto di loro interesse comune. La notizia diviene quindi fondamento di democrazia, e va sviluppata una riflessione sulla definizione stessa di notizia (dobbiamo ad esempio domandarci; “quid est veritas?”; ed anche: quante verità vi sono?). In generale, una notizia ha una caratterizzazione interna ad un gruppo sociale (pensiamo ad esempio ai giornalini di classe), e deve quindi essere individuata con riferimento a quest’ultimo. Così come nella ricerca scientifica vi è la necessità di considerare soltanto leggi, o spiegazioni, che siano “interne" al fenomeno in esame, senza finalizzazioni od orientamenti verso uno “scopo” imposto dall’esterno (il concetto di teleonomia di Jacques Monod). Non vi è notizia se non vi è una comunità interessata (e disposta) a conoscerla: il decadimento di un protone può essere una “notizia” al CERN di Ginevra, ma non lo è al di fuori di un ambiente di fisica delle particelle. La quasi totale assenza di informazioni fornite da cittadini su delitti di camorra (come l’omicidio di Mariano Bacioterracino, avvenuto in pieno giorno e davanti a tutti a Napoli l’11 maggio 2009) può essere considerata un chiaro esempio di omertà, o di paura, o di tragica assuefazione. Ma in tutti i casi essa rende eventi così violenti e significativi una “non notizia" per chi, pur avendovi assistito, si rifiuta od ha timore di accettarne le implicazioni. Inoltre, quale condizione per consentire l’approfondimento della notizia, la statistica, ed in particolare quella sua parte che riguarda la teoria della scambiabilità, esige che la notizia stessa, in relazione alla comunità interessata, sia tale da rendere ogni contributo uniformemente utile dal punto di vista informativo. Cioè, come si dice in statistica, che ogni contributo sia “scambiabile” con gli altri; con il che si intende, in modo più colloquiale ma forse più espressivo, che “ l’uno valga l’altro”. Ciò a sua volta richiede, ad esempio, uniformità di familiarità e di abilità nell’accesso alla rete, o di caratteristiche culturali/sociali, o di capacità di influenzare. (Per quanto riguarda in particolare la rete, è interessante rilevare le sue notevoli capacità di autocorrezione: è noto ad esempio che informazioni sbagliate o non adeguate, una volta inserite su Wikipedia, vengono molto rapidamente corrette da contributi successivi. E questo a rafforzamento della bontà del processo di elaborazione collettiva).

Un esempio di estrema disuniformità è fornito dal Grande Fratello dell’Orwell di “1984" (e, a questo proposito: quanti, vedendo l’omonima trasmissione televisiva, si rendono conto del significato da incubo del riferimento originale?). All’estremo opposto, Desmond Tutu e la sua Commissione per la Verità e la Riconciliazione nel Sud Africa ci consegnano un grande esempio di come l’aver considerato con pari dignità tutti coloro che potevano contribuire all’approfondimento di una realtà drammatica ha condotto al raggiungimento di una condivisione della realtà stessa. La libera messa in comune delle esperienze personali, e delle confessioni, ha consentito di mettere a fuoco e di “definire" la “notizia" della tragedia dell’apartheid, fornendo così un contesto comune sul quale fondare la nuova convivenza. In Italia, la Resistenza e la formazione della Repubblica non hanno goduto dello stesso processo di accettazione come fondamento comune. L’assimilazione della notizia ad una teoria scientifica implica poi che la notizia stessa non è mai totalmente conosciuta, ma ha un carattere provvisorio, e rimane “aperta” al progressivo chiarimento generato dai successivi contributi, inducendo così un’evoluzione.

Supponiamo ad esempio che si proponga ad una comunità il compito di chiarire l’entità ed i motivi di una disfunzione nella raccolta rifiuti. Possono arrivare contributi su carenze di organizzazione dell’ente preposto, e poi su problemi di inquinamento, e poi sulla conseguente generazione di patologie, e così via. Oppure possono arrivare contributi su una gestione di rifiuti tossici, e poi sull’organizzazione criminale che la mette in atto, e poi qualcuno che sa troppo ci muore… Un indizio iniziale si può quindi sviluppare in varie direzioni, conducendo ad un quadro ben più ampio e seguendo quello che viene considerato “di proprio interesse" dalla comunità stessa, fino a quando non vi è più nulla da mettere in comune, relativamente alla questione in esame (direbbero gli statistici: fino a quando il contesto comune acquisito rende i contributi indipendenti). Ora, l’arricchimento dell’informazione nel tempo, l’aumento della conoscenza, introduce una freccia del tempo, distinguendo il passato dal futuro, e quindi istituisce una storia. Così, come già detto, la notizia diviene quella parte di conoscenza, in un certo contesto, che i cittadini ritengono di desiderare, o di dovere, condividere; non si tratta quindi di “ dare ” una notizia, quanto di farla emergere e prendere corpo, e perseguirne l’approfondimento fino a che non si constati che non vi è più nulla al riguardo che risulti partecipato da tutti gli interessati. In essa i cittadini si “specchiano” e prendono coscienza dei contorni del “fatto” da loro condiviso, e di conseguenza del loro stesso modo di essere e di agire, Si conferma così il reciproco legame definitorio tra notizia e gruppo sociale (analogo a quello esistente tra leggi scientifiche e insieme di dati sperimentali), da considerare, sotto un certo aspetto, equivalenti, anche se diversamente espressivi. Ed il giornalismo partecipativo contribuisce in modo importante alla formazione di una storia condivisa. Ma se questo è vero, allora contribuire a questa forma di giornalismo non è opinabile, è un dovere. Perché viviamo in una società dove la pressione comunicativa, distorcente ed omissoria, del potere nelle sue varie forme rischia di cancellare la realtà dei fatti, e di conseguenza i fondamenti e l’anima dei nostri rapporti sociali. D

obbiamo esprimerci, partecipare, intervenire, ristabilire la verità contro le dicerie (come dice Barbara Spinelli in un suo recente intervento su “La Stampa”). E soprattutto il dovere nasce dal fatto che ciascuno di noi sa come stanno le cose, e può dire non solo con Pier Paolo Pasolini: “Io so”, ma con Roberto Saviano: “Io so e ho le prove”. Una partecipazione distratta, distaccata o addirittura assente da parte di chi “sa” lascia come conseguenza spazio ad un giornalismo “professionista” (non nel senso positivo, ma in quello di “ non partecipativo ”) esterno alla comunità, e certamente non scambiabile con essa , visto il potere del quale dispone, o che rappresenta, il quale, con minimizzazioni od omissioni, può ben deformare e cancellare i fatti non graditi al Palazzo, come nel TG1 di Minzolini. In effetti, come è noto, la conoscenza è sempre rivoluzionaria, a cominciare dall’episodio del frutto colto da Eva nel Paradiso Terrestre. Dobbiamo anche considerare che il dovere di far pervenire nuovi contributi discende come conseguenza dal fatto che l’assenza di nuovi dati non corrisponde ad assenza d’informazione; piuttosto essa fa inclinare a ritenere superata la notizia che di conseguenza rischia di venire archiviata come non più interessante, o attuale. In questo quadro, il ruolo del giornalista professionista è simile a quello del “primus inter pares", del revisore dei conti, di colui cioè che deve stimolare e curare affinché i punti fondamentali del processo di partecipazione, che abbiamo ora discusso, siano garantiti e correttamente applicati. Secondo un proverbio Pueblo, “l’uomo saggio ragiona con il cuore, solo lo stolto ragiona con il cervello". Se il ragionamento porta alla comprensione, ed il “cuore” viene inteso come apertura ai contributi di altri, considerati con pari dignità, il proverbio esprime in modo conciso quanto ora discusso.

La convivenza umana

Nelle varie forme di associazione, i “dati” sono i membri stessi della società, ed il contesto comune è fornito dal carattere della società, dal suo statuto, dalla costituzione; dalle regole, abitudini, comportamenti codificati dall’evoluzione della società stessa; dal sistema di valori di essa; in definitiva dal suo concetto di “bene comune”. Mi riferisco qui non a società “bloccate”, per le quali l’adesione comporti passivamente l’accettazione di regole, comportamenti, sistemi di valori già codificate e non modificabili, ma a società che all’opposto vivono e si arricchiscono del contributo dei loro membri. Il paradigma della ricerca scientifica, e la richiesta di scambiabilità suggeriscono anche qui alcuni spunti di riflessione, che vorrei sviluppare in modo essenziale, astraendo necessariamente dalla ricchezza delle varie situazioni possibili. Il punto di partenza è il nucleo iniziale della società considerata (una tifoseria, la coppia generatrice di una famiglia, i padri fondatori di una nazione, gli iniziatori di una comunità religiosa, …). Ora non vi è una “realtà” esterna, ma la definizione del contesto comune, di ciò che si ritiene caratterizzante l’associazione, è interna al gruppo sociale stesso, e va quindi individuata con riferimento ad esso. Non c’è spazio per forzature esterne quali supposte oggettive “leggi di natura”. Piuttosto, il contesto va interpretato come l’insieme di quanto vogliamo mettere in comune per partecipare alla comunità, per contribuire alla sua costruzione; ed in definitiva, come il nucleo essenziale che è considerato equivalente alla comunità stessa. Senza di esso non esiste dialogo o rapporto sociale. E senza una costante visibilità del contesto, che lungi dall’essere scontata necessita di una continua e rinnovata attenzione, il rapporto sociale si svilisce, e si apre la strada a derive e snaturamenti. Ogni membro è libero di proporre innovazioni al contesto comune, che di conseguenza evolve nel tempo. Pensiamo ad una coppia, alla formazione di una famiglia, all’ingresso di nuovi membri ed alle conseguenti modifiche nella definizione ed accettazione del sistema di valori interno alla famiglia stessa. O alla fondazione di Roma, seguita dall’acquisizione di province e di nuove culture, ed alla formazione dell’Impero attraverso la messa in comune ed accettazione di nuovi valori. Od ancora all’evoluzione della lingua, con l’introduzione di nuovi termini ed espressioni, ed il loro inserimento nel contesto riconosciuto e parlato.

I membri di una comunità devono poi essere scambiabili fra loro: non solo cioè devono conoscere e valutare il contesto comune nella sua forma corrente, ma devono sentirsi soggetti con la stessa dignità e con il diritto/dovere di contribuire alla sua diffusione, al suo rafforzamento, al suo cambiamento, restando poi naturalmente in possesso, una volta dato per acquisito il contesto, di caratteristiche personali non condivise dalla totalità degli altri. Questo, ad esempio, è richiesto in una democrazia, come ingrediente fondamentale, in aggiunta alla divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu in poi, ed abbiamo già accennato al contributo essenziale apportato in tale direzione dal giornalismo come quarto potere. Naturalmente, in una società democratica, i cambiamenti avvengono attraverso rapporti di forza e, per quanto riguarda gli aspetti normativi, attraverso la dialettica tra maggioranze e minoranze. Ma è necessario che gli eletti e governanti formino con i loro elettori una collettività scambiabile, vale a dire condividano e riconoscano uno stesso sistema comune di regole, valori, cultura, in definitiva siano sentiti come “ uno di noi “. Questo rapporto viene esposto a seri rischi non solamente quando la maggioranza restringe in modo illiberale i diritti della minoranza, ma anche quando, pur in un quadro formalmente democratico, si realizza una concentrazione di potere economico, politico e ideologico, ed una contemporanea delegittimazione degli altri riferimenti garanti dell’equilibrio istituzionale. Vedi al riguardo un recente intervento di Massimo Salvadori su “La Repubblica”. In definitiva, senza la scambiabilità la democrazia non è difesa da stravolgimenti autoritari (come Hitler e Mussolini insegnano). Ed è evidente ad esempio che Berlusconi non è scambiabile rispetto ai valori ed alle istituzioni costituzionali italiani; ma appare scambiabile rispetto ad un altro sistema di valori quali individualismo, antistato, maschilismo, morale fai-da-te, potere, nei quali purtroppo molti italiani si riconoscono.

La suddetta proprietà di scambiabilità difficilmente invece si verifica nei gruppi di “amici" formati su un qualche network sociale, a causa della struttura ramificata ad albero del processo di accoglimento di nuovi membri nei gruppi stessi. Si è detto che il contesto comune di valori, cultura, esperienze “vive” del continuo apporto di contributi di riconoscimento e di elaborazione. Mai come oggi in Italia, ad esempio, si avverte la necessità di combattere per il rafforzamento e la diffusione della costituzione, e del senso di legalità, e contro le spinte alla disgregazione. E questo, in senso lato, è il primo dovere della politica. Ma anche la scuola, e gli altri strumenti ed occasioni di diffusione e dibattito culturale, rivestono una straordinaria importanza al riguardo, e sussiste un grave pericolo di intervento insufficiente od addirittura di omissione. Poiché in effetti l’assenza di un contesto comune riconosciuto ed accettato porta alla frammentazione ed all’individualismo esasperato (meno importante è il sistema di valori, meno impegnativa è la partecipazione), mentre l’insufficienza dei contributi individuali espone ai pericoli di dittatura. La coesistenza spinge invece alla ricerca di un quadro di riferimento comune, ancora da scoprire e/o da approfondire. Ad un livello generale, Carlo Garbagnati rileva l’assurdo di avere approvato a maggioranza (nella Assemblea ONU del 10/12/1948) la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e conclude: “ … i diritti umani non si possono imporre. Per i diritti umani è decisiva, nel pensarsi universali, l’impossibilità di essere assoluti. “E dall’assunto che la vita (non solo biologica, ma sociale, culturale, economica) sussiste come assimilazione di differenze, discende la necessità di salvaguardare e comprendere le diversità, ponendo le basi di un rapporto corretto non solo con l’ambiente, ma anche tra individui e culture diverse.

Così, l’individuazione e la presa di coscienza del contesto di valori comuni, con il quale un popolo si identifica, assume particolare rilevanza nel processo di integrazione di altre culture e nel dibattito attuale al riguardo. Cosa vuol dire essere cittadino italiano? Cosa di questo ci piace e cosa vorremmo invece modificare? Cosa dobbiamo chiedere a chi domanda di condividere questa cittadinanza? E noi, davvero accettiamo come valori quanto (lingua, culture, tradizioni, storia…) chiediamo ad altri di accettare?

 

Ancora qualche commento

Ho cercato di mostrare come sia possibile, e forse opportuno, trarre dalle regole dell’attività scientifica, sostenuta dalla statistica, interpretazioni di alcune differenti attività umane che spingono a valutare meglio l’importanza di principi e comportamenti. Il discorso può certamente essere allargato ad altri campi quali il teatro, la scuola, le associazioni religiose (non è forse importante che gli spettatori, gli studenti, i fedeli siano scambiabili tra loro? e che con loro sia scambiabile e in loro quindi si “specchi" l’attore, l’insegnante, la guida religiosa?), e così via. In ciascuno di questi ed altri campi si potrebbe avviare un forum di discussione. Ed anche la lettura di un testo conduce ad un rapporto tra i lettori di quel testo fra loro, e tra i lettori e l’autore, che meriterebbe di essere approfondito con le categorie che abbiamo qui adoperato. Così l’autore si “specchia" nel processo collettivo di acquisizione del suo messaggio (come accade a me adesso), ed entra a far parte dell’evoluzione conoscitiva che egli stesso ha stimolato. Un po’ come le opere di Maurits Cornelius Escher, nelle quali un soggetto viene rappresentato mentre si riflette in uno specchio, od in una stampa, con una ripetizione sequenziale delle immagini (il cosiddetto “effetto Droste") che fa perdere il riferimento a quella iniziale, ormai anch’essa parte di un gioco di specchi complessivo.

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