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Concessioni balneari: l’ultima spiaggia di un paese irriformabile

Riuscirà Mario Draghi a mettere finalmente a gara le concessioni balneari oppure proseguirà la "privatizzazione" a beneficio degli amici degli amici?

 

Pare, ma diciamolo sottovoce, che il presidente del consiglio, Mario Draghi, abbia finalmente deciso di prendere in mano il famoso dossier sulle concessioni pubbliche. Parliamo, in prima battuta, degli stabilimenti balneari ma anche delle bancarelle degli ambulanti. Tema vecchio e consunto che sin qui è stato congelato e disattivato a colpi di proroghe a lunghissimo termine. Eppure in gioco c’è la concorrenza ma anche gli incassi dello Stato, cioè di noi contribuenti, almeno di quanti tra noi pagano le tasse.

Dopo sollecitazione dello stesso Draghi, che sta preparando non senza fatica la nuova legge sulla concorrenza, appuntamento in teoria annuale che ogni anno viene sistematicamente rimesso nel cassetto, l’Antitrust ha inviato a marzo una segnalazione che ribadisce l’esigenza di rispettare la Direttiva 2006/123/CE (Direttiva dei Servizi), nota come Bolkestein, dal nome del commissario europeo al mercato interno dell’epoca, che all’articolo 12 recita:

[…] qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati Membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’ avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.

In tali casi,

L’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.

Serve una gara pubblica

Serve quindi una procedura a evidenza pubblica, cioè una gara. Norma che viene sistematicamente disattesa mediante rinnovi automatici di lungo termine. Alcuni numeri sulle concessioni li fornisce oggi Paolo Baroni su la Stampa:

In Italia, solamente per quando riguarda il demanio, si contano in tutto 61.426 concessioni per un totale di 3.346 chilometri di spiagge. Le concessioni relative agli stabilimenti balneari segnala il rapporto “Spiagge 2021” di Legambiente – in tutto sono 12.166 e in tre anni sono cresciute del 12,5% soprattutto al Sud. Oltre a queste ci sono poi altre 1.838 concessioni relative campeggi, impianti sportivi e complessi turistici.

Nel 2019, ultimo anno di dati disponibili, lo Stato ha messo a bilancio 115 milioni di euro di introiti riscuotendone solo 83 milioni. L’arretrato è arrivato 235 milioni, dal 2007 a oggi. Con un complesso algoritmo, scopriamo che ogni concessione vale in media 9.200 euro ma che lo Stato incassa una frazione di quel pur risibile importo.

E gli incassi dei concessionari? Nel 2019, ultimo anno prima della pandemia, una stima di Nomisma li cifrava in 15 miliardi. Alcuni numeri di concessionari famosi, riportati nell’articolo di Baroni:

[…] il Twiga di Briatore, a Marina di Pietrasanta, versa 17.619 euro di canone annuale ma ne incassa ben mille al giorno per un solo gazebo, mentre il Papeete Beach di Milano Marittima che nel 2019 ha fatturato 3,2 milioni di euro ne sborsa 10mila.

Una repubblica fondata sulle proroghe

Al netto di questi casi eclatanti, si pone o meglio ripropone il tema. Che fare? Sappiamo che pressoché tutti i partiti si sono sin qui opposti all’applicazione della Direttiva Servizi, nota come Bolkestein. Ora, dovendo mettere mano alle riforme strutturali e pro competizione che formano parte integrante del piano nazionale di resilienza e ripresa, che ci consegna tanti bei soldini (“perché noi valiamo”), occorre agire.

Avremo i soliti strepiti dei soliti noti, che grideranno alla colonizzazione del Belpaese per mano delle multinazionali con tante zeta. Reprimiamo lo sbadiglio ricordando che l’ultima di una lunga serie di proroghe delle concessioni è stata firmata da Giuseppe Conte durante il suo primo governo per rispondere a sollecitazioni non solo leghiste: quindici anni secchi, al 2033, e più non dimandate. La Commissione europea ha avviato l’ennesima procedura d’infrazione contro l’Italia, per questa levata d’ingegno.

Nel corso di questi quasi quindici anni di vigenza disapplicata della direttiva, e durante la fasi acute delle nostre ricorrenti crisi, i governi pro tempore hanno cercato di quadrare i conti mettendo a bilancio improbabili “privatizzazioni”, poi regolarmente disattese. A dirla tutta, le concessioni demaniali sono la forma suprema di “privatizzazione”: un tozzo di pane allo Stato e ossequi alla signora.

Aumentare gli introiti da concessioni, mettendole in relazione meno fantasiosa con la redditività dei concessionari, è il minimo che uno Stato non venduto e svenduto dovrebbe fare, per il bene dei fessi che ancora gli pagano le tasse. Forse per questo Draghi si è accorto del bubbone.

Eppure, vedrete che ci toccherà sentire argomentazioni del tipo “se le concessioni aumentano, l’ombrellone costerà di più, giù le mani dalle famiglie italiane!”. Quando la malafede incontra l’ignoranza, nascono le campagne elettorali italiane. I bookmaker rifiutano anche di quotare un’altro spin assai probabile, anzi pressoché certo: “come osate anche solo pensare di mettere a gara le concessioni balneari, dopo una pandemia?” In effetti, questo paese appare minato da pandemie da alcuni decenni.

Come mettere a gara

Ma come gestire le concessioni in modo equo ed efficiente, evitando la proletarizzazione dei poveri concessionari, spesso presentati come autentici filantropi della comunità nazionale? Qui mi sovviene un interessante contributo di Alberto Heimler, pubblicato su lavoce.info lo scorso dicembre.

La premessa: dato che la ratio di una concessione è la sua valorizzazione economica a beneficio di concedente e concessionario, come è possibile evitare che la periodica messa a gara determini incentivi negativi, legati alla scadenza, frenando investimenti e degradando la qualità del servizio?

[…] il valore di uno stabilimento balneare già in attività non dipende solo dalla qualità dell’arenile, ma anche dall’imprenditorialità del gestore, che tramite i servizi proposti riesce a differenziare la sua offerta e a fidelizzare la clientela. Se la concessione di un arenile è posta periodicamente a gara, è possibile che l’incentivo del gestore a fornire servizi di qualità si attenui vicino alla scadenza, contribuendo a rimandare investimenti o altri interventi che avrebbero beneficiato i consumatori.

Ma come determinare il corretto onere concessorio? Ecco l’idea:

Il meccanismo potrebbe essere il seguente: la prima concessione di un arenile completamente libero o abbandonato viene attribuita per un periodo limitato (si può pensare a 10 anni) e a seguito di una procedura competitiva: chi è disposto a pagare una cifra fissa più elevata si aggiudica la concessione. Per il primo periodo, anche in considerazione delle incertezze relative alla profittabilità dell’iniziativa, viene stabilito amministrativamente un onere concessorio annuale relativamente modesto, analogamente a quanto avviene oggi.

E sin qui, nulla di differente dalla situazione odierna, appunto. Le cose cambiano al termine del primo periodo di durata della concessione:

Alla fine del periodo di durata della concessione, viene chiesto al concessionario il valore dell’attività che ha contribuito a realizzare (e che accetterebbe come prezzo di vendita se dovesse cedere l’attività) e sulla base di quel valore viene calcolato un onere concessorio (per esempio, il 7 per cento di quel valore) da corrispondere annualmente all’amministrazione concedente per il periodo concessorio successivo (per esempio, per i 10 anni successivi).

In pratica, al concessionario viene chiesto di valutare la sua attività, cioè quanto egli stimi che la medesima abbia determinato la valorizzazione della concessione. Questa valutazione diventa quindi la base d’asta per la gara successiva. Ma che fare, se il concessionario sovrastimasse la sua attività? Ne pagherebbe le conseguenze:

Per consentire l’ingresso di concorrenti più efficienti, viene effettuata una gara che ha come base d’asta l’onere concessorio così individuato e la concessione viene affidata all’impresa che offre di pagare il canone più elevato. Chi si aggiudica la concessione deve però compensare il concessionario uscente: in particolare, il nuovo entrante dovrà corrispondergli il valore che il concessionario uscente aveva indicato come quello a cui sarebbe stato disposto a cedere. Se nessuno si presenta alla gara o se vince il concessionario uscente stesso, la concessione viene riaffidata al concessionario uscente che pagherà un canone in proporzione del valore da lui dichiarato o, altrimenti, pagherà il canone con il quale si è aggiudicato la gara.

Ridurre disincentivi e furbizie

Se il concessionario uscente gonfia la sua valutazione e per questo motivo rivince la gara, dovrà pagare un canone gonfiato, in conseguenza della sua stessa valutazione. Se invece egli sottostimasse la propria valutazione, si infliggerebbe un danno. Proposta interessante, che tenta di contenere il free riding da asimmetrie informative da parte del concessionario uscente.

Ci sono molte varianti a questo approccio, tutte analizzate nella teoria delle aste. Basta avere la volontà di applicare un metodo. Non so che accadrà e se le concessioni demaniali verranno effettivamente messe a gara e non “privatizzate” come fatto sinora.

Di certo, il diavolo è nei dettagli; ad esempio nel tasso di rendimento concessorio, che può cambiare tutto per non cambiare nulla, anche applicando questo metodo di gara, e condannare lo Stato a continuare a incassare le solite briciole.

L’unica cosa evidente è che concorrenza e modi per perseguirla sono coessenziali ai fondi europei e al concetto di “riforme”. Ho seri dubbi che i partiti abbiano compreso questo legame, mentre sono occupati a magnificare la “rivoluzione digitale e verde” e la crescita a perdifiato che realizzeremo, a colpi di debito.

Temo tuttavia che, in questo periodo, così pervaso da suggestioni di “socialità” popolare, popolana e populista, in cui i concetti di mercato e concorrenza appaiono tanto démodé, avrà gioco facile chi punta a impedire che il mercato si affermi realmente e a preservare le “privatizzazioni” a colpi di favori agli amici e catture del regolatore-concedente.

Non ci resta, tanto per cambiare, che sperare in Draghi, contro tutti i suoi farisaici adulatori.

 

Foto di Matthias Böckel da Pixabay

Questo articolo è stato pubblicato qui

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