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Concertazione e flessibilità, il danno eccolo qua

“Noi non pensiamo che la concertazione sia come la coperta di Linus della quale non si può fare a meno. Se c’è siamo più contenti e se si possono fare gli accordi noi siamo qui. Non è che noi siamo ideologici, siamo pronti a farli e li abbiamo fatti come nel caso Electrolux o Lamborghini”, disse Matteo Renzi durante un forum a Repubblica TV, esibendo peraltro una discreta ignoranza nell’accomunare accordi aziendali di gestione di crisi alla più generale (e determinante, per le prestazioni del sistema-paese) politica economica sotto il marchio tossico-nocivo noto come “concertazione”, che infiniti guai addusse agli italici ed alle loro tasse, senza rilanciare alcunché di tangibile e produttivo. Ma nell’Era della coperta drammaticamente corta, anziché di Linus, e vista anche la moderata soddisfazione sindacale per l’incontro di ieri col premier, è lecito alzare le antenne, prima del sopracciglio.

Pare, come noto, che Renzi abbia sventolato la caramella dell’aumento di alcune pensioni minime, e pare anche che abbia aperto ai sindacati sul tema della flessibilità. Dopo che persino Istat ha certificato che la “staffetta generazionale” è una chimera per falliti (non era difficile: bastava guardare i tassi di occupazione dei più giovani e dei più anziani nei paesi “normali”, entrambi assai elevati rispetti ai nostri standard, per capirlo), Renzi si scopre dialogante e possibilista ed apre alla flessibilità in uscita. Regoletta da tenere a mente: ogni volta che leggete il termine “flessibilità”, preoccupatevi per le vostre future tasse, e molto. Perché di quello si tratta, in essenza. Riguardo all’anticipo pensionistico, si ipotizza una penalizzazione massima (legata al reddito) del 4% l’anno sino a tre anni. Non è detto che si riesca a far passare parte dell’Ape con la bislacca idea del prestito pensionistico, con le banche ad erogarlo e l’Inps a garantirlo. Alla fine, quella garanzia sarebbe traslata direttamente in un aumento del debito pubblico, producendo l’effetto che i Nostri volevano evitare. Il costo dell’Ape, che finirebbe con lo “smorzare” alcuni spigoli vivi della riforma Fornero per i nati negli anni dal 1951 al 1953, oltre a “risolvere” i problemi della ormai vastissima categoria dello spirito degli “esodati” (certificando la morte prenatale delle politiche attive del lavoro) dovrebbe essere intorno al miliardo annuo. Inutile dire che i sindacati vogliono altro, ben altro: ad esempio, una generosa ridefinizione dei lavori usuranti. Che, conoscendo i nostri polli, finirebbe per sfondare definitivamente i conti pubblici in un paese dove tutti sono logori.

Poi ci sarebbero, come detto, i magici 80 euro per i pensionati al minimo. Qui l’esborso varierebbe da 3,5 miliardi annui (se erogato a tutti i percettori di minima) ai 2,3 miliardi per chi ha solo pensioni integrate al minimo e non cumula quindi altre prestazioni pensionistiche, come la reversibilità. Ma il punto vero, quello politico prima che economico, è l’intervento strutturale di decontribuzione. Che, ricordiamolo, è la certificazione che sin qui Renzi ha sbagliato tutto, immolando venti miliardi in un triennio alla decontribuzione temporanea legata al Jobs Act. Mentre oggi sui giornali italiani abbiamo scoperto che il cuneo fiscale italiano resta altissimo (ohibò, tu pensa la reattività della nostra stampa!), le idee sul tavolo sono quelle di una decontribuzione di 4-6 punti percentuali solo per i nuovi assunti, oppure estesa a tutti i lavoratori a tempo indeterminato. Ovviamente, qui serve capire chi pagherà: il lavoratore, sotto forma di una bella voragine nella sua futura pensione, oppure la fiscalità generale, cioè i contribuenti tutti?

Ancora una volta, sino alla nausea: quei soldi esistevano, sotto forma di deficit, da subito: erano i dieci miliardi annui degli 80 euro. Allo stesso modo in cui erano utilizzabili i venti miliardi per un triennio immolati alla decontribuzione temporanea. A nulla servirebbe/servirà il biscottino dell’eventuale riduzione della tassazione del risparmio previdenziale, che vi sarà presentato come una grande operazione di riduzione d’imposta da parte di quelle stesse facce che due anni fa parlavano della necessità di colpire le “rendite finanziarie pure”. Ricordate? Noi sì. Aggiungete gli oltre 4 miliardi di gettito annuo buttato per eliminare la Tasi sulla prima casa, e che potevano essere messi su ulteriore taglio della componente Irap di costo del lavoro a tempo indeterminato, ed avrete l’esatta misura del casino fatto da Renzi in questi due anni. Il tutto mentre sui nostri baldi giornali compaiono timide citazioni di antichi e reiterati precetti Ue sulla riduzione dell’imposizione sul costo del lavoro, da spostare invece su consumi e patrimonio. Continua a volerci pazienza.

Il nostro timore, a dirla tutta, è che questa ritrovata “concertazione” produca un do ut des di questo tipo: ampliamento della platea di usurati, mancia alle pensioni minime, qualcosina di poco penalizzante anche sui pensionamenti flessibili ma in cambio della decontribuzione schiantata sul groppone dei lavoratori, cioè di nuovi crateri scavati nelle loro future pensioni. A pensar male si fa peccato ma, vista l’insipienza di Renzi e gli obiettivi di cortissimo respiro dei sindacati, vista anche la platea dei loro iscritti, si rischia di azzeccarla. E comunque, ribadiamolo: Renzi ha buttato alle ortiche due anni e decine di miliardi, per le sue iniziative propagandistiche. Di questo pagheremo un conto salatissimo ma alla fine dovremo anche essere grati al destino cinico, baro e tedesco che ci ha messi in una crisi fiscale pre-terminale. Altrimenti, l’accoppiata Renzi-Sindacati avrebbe inferto un colpo mortale a questo paese sudamericano fuori posto sulle cartine.

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