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Come ci informiamo?

Esplorando il web sono recentemente incappata nell'articolo "Quanto è alto il tempo" di Pino Mario Di Stefano, incentrato sul tema del tempo e di come l'uomo abbia dimostrato, nel corso della sua evoluzione, di non saperlo gestire affatto, e di averlo attraversato un pò a casaccio. 

 
 

L'autore sostiene che quanto l'umanità è stata ad oggi in grado di realizzare in termini di storia e di accadimenti reali è solo il frutto di alterne fortune e di cieca incoscienza. La chiosa finale del suddetto articolo riporta una bella citazione che invita a riflettere:

"Ci conviene riconoscere, con J. d'Ormesson, che, se è vero che gli uomini fanno la storia, è altrettanto vero che “non sanno la storia che fanno. Anzi si potrebbe dire che la fanno loro malgrado".

Queste righe ci conducono direttamente al tema de "la visione": una visione confusa che l'essere umano ha sostanzialmente del proprio cammino e della direzione da percorrere; una visione presuntuosa, basata sulla mera logica razionale pescata dai lasciti della tradizione - quella accolta e stigmatizzata come La Tradizione -, che designa i modi cartesiani quali unici fari di cui noi mortali disponiamo per illuminare il vasto mare della conoscenza.

Il tema sembra caro all'autore, dato che già faceva capolino in un suo precedente articolo titolato "Critica della trasparenza". 

In quel caso venivano lì ammoniti i fruitori dell'arte storicamente intesa a non limitare l'esercizio della capacità percettiva all'utilizzo dei soli strumenti della razionalità condivisa. 

L'esortazione conclusiva, qui sotto riportata, mi ha convinta infine a scrivere questo post: 

"Può sembrare paradossale, ma, forse nel percorso della vita, bisognerebbe temere la chiarezza eccessiva. “Fidatevi dell’intelligenza seconda, fidatevi della notte”, ho letto, una volta, da qualche parte, e ho volentieri accolto questa apertura, generosa e liberante"

Nel corso dell'articolo Di Stefano indica "la chiarezza eccessiva" come la meta idealistica e mai raggiungibile di chi, con limitati strumenti, vuole vedere tutto ciò che una immagine espone. Tale condizione, ci dice, andrebbe temuta, in quanto irraggiungibile o realizzabile soltanto in modo illusorio - condizione, a mio avviso, certamente peggiore.

L'opera d'arte, nell'ambito della filosofia, viene indagata come espressione esemplare di quel processo informativo che tutto dice, ma i cui rimandi spesso non possono essere colti secondo l'ermeneutica convenzionale che fa uso di un linguaggio "istituzionalmente" condiviso. 

Ne deriva pertanto la convinzione, difficile da contestare, secondo cui l'opera d'arte esprime l'indicibile, rimanda all'infinito, verso un luogo (esistenziale e metafisico) che si trova ben al di là della cornice che la racchiude e ce la offre.

Ciò che si espone alla percezione parla di sè, ha una capacità informativa ostensiva, attraverso un modo che, secondo il famoso motto di Wittgenstein per cui "di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere (T.L.P.)" ci condurrebbe all'accoglienza silenziosa.

La filosofia occidentale, però, denuncia qui un grosso limite: il linguaggio, sia pure ben declinato, non arriva a descrivere tutto, e non è il solo strumento attraverso cui presentare e condividere l'esperienza. 

Non è vero che il Reale è Razionale - per attardarci ancora un pò nei sentieri della filosofia - perché il Reale è molto molto di più, e trova espressione secondo modalità e forme non sempre "dicibili".

Ed è ciò che sperimentiamo ogni volta che ci poniamo dinanzi ad una immagine.

 La fruizione dell'arte esprime esemplarmente la complessità dell'atto conoscitivo, così come la difficoltà che incontriamo nel trasmetterne esaustivamente i contenuti - se così vogliamo definirli - ci mette dinanzi alla complessità del processo informativo.

 Che non può esaurirsi con il dire. Ma che richiede un altro "dire", più immediato e primordiale, che è strutturalmente connesso alla nostra esistenza.

Dinanzi a questa esperienza comprendiamo, in breve, che gli esseri umani condividono un modo comunicativo alternativo a quello istituzionale (quello che ci insegnano a scuola, insomma), che è poetico, trasversale e globale.

Un linguaggio che attraverso le immagini ci parla da dentro e ci investe anche a livello organismico.

 Ma torniamo a Di Stefano:

 “Fidatevi dell’intelligenza seconda, fidatevi della notte”, ho letto, una volta, da qualche parte, e ho volentieri accolto questa apertura, generosa e liberante"

Siamo soliti riferirci alla conoscenza viscerale come ad una intelligenza seconda, in quanto avvezzi a dar retta primariamente a quella razionale e cerebrale. 

Ma fior di scienziati hanno dimostrato che le nostre viscere presentano una struttura neuronale simile a quella del cosiddetto "primo cervello" ed anzi, forniscono ed elaborano informazioni molto più rapidamente di quello, tanto da meritarsi a buon diritto esse stesse il titolo di primo cervello - o intelligenza prima

Primo per intervento, utilità e funzionalità, quindi, ma purtroppo ancora secondo per attenzione riservata. 

Questa intelligenza viscerale va oltre i limiti dello strumento razionale, metabolizza e intercetta le immagini in maniera immediata e ci allerta se quanto impattiamo é buono, ci fa bene, o se provoca la necessità del rifiuto. 

Mi riferisco a quel sentire di pancia che ci mette misteriosamente in allerta, prima che noi arriviamo a razionalizzare gli eventi - e spesso proprio in contrasto con quell'operazione.

Quando ci riferiamo alla notte, indichiamo solitamente il periodo di presenza-assenza, quello in cui riposiamo e quindi esponiamo la nostra fragilità all'ambiente. 

In quella fase i nostri processi razionali sono rallentati, le nostre reazioni più blande... E la nostra intelligenza viscerale può finalmente informarci senza troppe sovrapposizioni. 

Lo fa, quindi, attraverso le immagini - brevi o collegate tra loro in una sequenza che sa di reale e di fantasioso al tempo stesso. E che ci informa, in modo completo, di quanto sta accadendo nel nostro personale percorso di vita. 

Un linguaggio che non siamo abituati a riconoscere nella sua importanza, e del quale sarebbe davvero opportuno recuperarne la capacità di lettura. 

Ciò potrebbe davvero favorire " un'apertura generosa e liberante".

Questo articolo è stato pubblicato qui

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