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Coblenza condanna il servitore, non il regime

Presentata per quella che in effetti è, la prima condanna storica di un carnefice d’un regime tuttora vigente, il Tribunale di Coblenza sentenzia che il cinquantottenne ex colonnello siriano Anwar Raslan dovrà attendere la fine dei suoi giorni in carcere. L’accusa è delle peggiori: crimini contro l’umanità. 

Oppressore, torturatore, stupratore così affermano vari testimoni, a cominciare dall’avvocato dei diritti Anwar Al-Bunni, sua vittima nel 2006 e detenuto per un biennio. Per altri tre anni l’avvocato era vissuto Siria e aveva incrociato le prime manifestazioni di dissenso contro Bashar Asad nel febbraio 2011. Decise di riparare in Germania dopo il massacro di Houla del maggio 2012, attuato dalla struttura parallela degli Shabiba, il gruppo mercenario di sostegno al regime, usato per reprimere il dissenso. E nel caotico intreccio di quella che è stata una sedicente guerra civile, diventando di fatto una guerra per bande, fino alla tragica realtà della nascita dello Stato Islamico in una buona parte del territorio, la mattanza è proseguita per sette terribili anni. Uno scempio che ha colpito la popolazione, con 400.000 vittime, otto milioni di profughi, piani della follìa assassina jihadista sostenuti con denaro e armamenti dal doppiogiochismo islamico saudita, qatarino, turco e di altri attori d’un Medioriente sempre più strumentalizzato e violentato. Le sorti dell’Iraq non sono state meno tragiche. Eppure l’attuale condannato Raslan, ufficiale dell’Intelligence damascena, capo di dipartimenti numerati: 251, la direzione generale del Khatib, quindi responsabile della struttura 285 che s’occupava, e tuttora s’occupa, dei detenuti politici, anche lui nel 2012 cambia aria. Anzi diserta. Si rifugia in Giordania perché fa qualcosa che non gli era permesso: sceglie d’indagare su un attentato compiuto a inizio di quell’anno nella capitale. Attentato sanguinoso, con vittime civili, che fa crescere l’indignazione contro i ribelli anti regime. Solo che la strage era ordita dall’interno, messa su dai Servizi di Asad. Di colpo Raslan diventa se non un oppositore, un uomo – e che uomo – non più funzionale al sistema repressivo del presidente, così per mettere a sicuro se stesso e la famiglia nel 2014 vola in Germania e chiede l’asilo politico.

I Land tedeschi sono grandi, ma grande, grandissimo è il numero dei profughi siriani quando nelle province da cui fuggono si combatte ancora ferocemente. Raslan per un periodo riesce a celarsi e passare inosservato, ma un organismo come il Syria Justice and Accountability Center, che lavora sugli scempi perpetrati in Siria da ogni componente, lo scova e lo denuncia. Nel febbraio 2019 l’ex colonnello viene arrestato, un anno dopo è accusato in base alle documentazioni raccolte fra gli oppositori che si son salvati riparando all’estero. Dall’aprile 2020 si è giunti alla sentenza odierna. La condanna personale, di per sé significativa, induce a due riflessioni. Mette in evidenza come la catena criminale di cui Raslan era un capo servitore fosse in atto negli anni del presunto rilancio democratico siriano rivendicato da Asad junior dopo aver ereditato la presidenza. Come hanno evidenziato ricerche realizzate in loco agli inizi del nuovo Millennio il clan Asad, continuava ad attuare un dominio sulla popolazione, con l’assenso d’una minoranza protetta, alawita e cristiana, e l’emarginazione di buona parte della comunità sunnita. Però i veri vertici di questa catena, i mandanti, non sono neppure sfiorati né dalla sentenza né dalla geopolitica, il clan allargato degli Asad che controlla i fedelissimi reparti militari, i Maḫlūf, braccio finanziario del regime, i Nāṣif Ḫayr Bek dirigenti di quell’Intelligence che ben prima delle manifestazioni della primavera 2011 aveva fatto scomparire migliaia di oppositori. E soprattutto lui l’oftalmologo finito nel Palazzo per decisione del padre-padrone e del destino che s’era portato via anzitempo Basil, il fratello designato alla successione. Dall’insediamento nel 2000 Bashir ha intrapreso il percorso dittatoriale di papà Hafiz, subdolamente ammantato dal teorico socialismo Ba’th, di fatto maschera per una feroce satrapìa. E davanti allo scempio d’uno Stato svuotato d’ogni funzione ha incarnato la difesa dei suoi clan, chiudendosi in una torre d’avorio assediata da ogni sorta di nemici, interni ed esterni, ribelli e mercenari. Mentre la gente di Siria moriva e fuggiva, il presidente pensava a conservare il potere. L’ossigeno glielo hanno fornito due autocrati, più abili e speculativi di lui. Così Putin, dopo averlo protetto manu militari, mantiene i suoi sommergibili nucleari a Latakia, mentre Erdoğan, spazzando via le difese kurde nel Rojava s’è fatto un regalo che accontenta pure Damasco. A Colonia viene condannato un uomo di regime, mentre il regime degli Asad, carezzato anche da molti Paesi occidentali, prosegue la sua cinica esistenza. 

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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