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Cina, il boom che non arrivò

Malgrado l'entusiasmo delle banche d'affari occidentali, i conti e la crescita della Cina non tornano, letteralmente. Pesano l'eccesso di debito, proprio e altrui, e le criticità geopolitiche

 

Un fantasma si aggira per i mercati finanziari mondiali: quello della forte ripresa dell’economia cinese. Attesa come manna dal cielo per contribuire a spingere l’economia globale, temuta per le potenziali conseguenze inflazionistiche sui prezzi delle materie prime e su catene globali di fornitura già stressate, telegrafata pavlovianamente dagli analisti delle banche d’affari occidentali, che hanno consigliato ai propri clienti di aumentare l’esposizione alla Cina, malgrado crescenti tensioni geopolitiche, per non perdere un treno di opportunità.

RIAPERTURA SENZA BOTTO

Invece, dopo la riapertura post pandemica che ha segnato una giravolta completa da parte del regime, passato da campi di detenzione e quarantena al liberi tutti, la crescita cinese è rimasta a vivacchiare, e gli investitori occidentali a grattarsi la testa in una crescente irritazione verso chi ha consigliato di comprare Cina. Secondo alcune stime, dallo scorso 18 aprile, quando sono stati pubblicati i dati della crescita cinese del primo trimestre, la capitalizzazione delle azioni cinesi è scesa di oltre 500 miliardi di dollari.

Ma che è accaduto? Molte cose, ma soprattutto una: il paese soffre dei postumi di un eccesso di leva finanziaria. Che si somma ad un sistema di welfare pressoché inesistente e di una redistribuzione che resta nei proclami del regime, con la mistica della “prosperità condivisa”.

C’è chi ha cercato di verificare, in base all’esperienza storica, se i numeri delle previsioni delle banche d’affari quadrino. Una crescita attesa (dalle banche d’affari occidentali) nel 2023 ben oltre il 5%, superiore alle già rosee previsioni ufficiali. Che tuttavia non trovano riscontro nelle statistiche ufficiali, che pure potrebbero essere “benevole”. Ad esempio, il fatturato industriale, che cresce solo di 1,5% nel primo trimestre, mentre la correlazione con una crescita attesa del 5% richiederebbe incrementi di circa l’8%.

I consumi discrezionali, legati al reddito disponibile, stagnano. La conseguenza è, dal picco di gennaio, una contrazione del 25% delle quotazioni delle azioni legate ai consumi discrezionali e del 15% nell’indice generale MSCI China. La conferma indiretta della debolezza congiunturale cinese viene anche dalle importazioni, che ad aprile si sono contratte, mentre i dati di vendite al dettaglio e produzione industriale sono usciti nei giorni scorsi ben inferiori alle attese.

La disoccupazione giovanile è ormai al 20%, alimentando frustrazione e tensioni sociali, mentre il regime invita i giovani a non essere schizzinosi e darsi da fare in fabbrica, nei campi o nel commercio ambulante anche se hanno una laurea che al momento non serve a nulla. Soprattutto, il credito cresce in modo decisamente debole, a differenza del passato, quando sono state poste le basi di questa ubriacatura a colpi di stimolo pubblico che quasi sempre partiva e finiva nell’immobiliare, alimentando un boom che ha costretto le autorità ad intervenire per raffreddarlo e, fatalmente, causare lo scoppio della bolla che ha nel gigante Evergrande solo la punta dell’iceberg.

CRESCITA A DEBITO E CRISI LOCALE

Il modello di crescita cinese, oltre che sugli stimoli pubblici, ha fin qui poggiato su una finanza pubblica locale basata sulla vendita di terreni a sviluppatori immobiliari, che pagavano gli oneri di urbanizzazione consentendo ai governi locali di quadrare i conti e spesso di prosperare. Con lo sboom immobiliare, questo modello di finanza pubblica è entrato in profonda crisi, costringendo a sforzi creativi come la creazione di veicoli di investimento fuori bilancio che comprano i terreni messi in vendita dalle autorità locali per far quadrare i conti. Questi veicoli pagano gli acquisti, spesso a valori ben superiori a quelli di mercato, indebitandosi con le banche statali e mettendo i terreni a garanzia, senza costruire. Un loop che difficilmente finirà bene. Attendendo la provvidenziale nazionalizzazione e centralizzazione della finanza pubblica locale.

Che tuttavia tarda, costringendo le municipalità in sofferenza finanziaria a tagliare i già esili servizi pubblici, gli stipendi delle aziende pubbliche locali, spesso inventandosi improbabili outsourcing e prendendo atteggiamenti aggressivi su contravvenzioni e sanzioni locali nel disperato tentativo di galleggiare.

Durante il Covid, inoltre, i cinesi sono stati segregati ma non hanno potuto godere della larghezza delle erogazioni di welfare viste in Occidente, il famoso “debito buono”. Mentre i cittadini statunitensi durante la pandemia hanno accumulato risparmi in eccesso pari al 10% del Pil, e grandezze simili si sono viste in Europa, i cinesi si sono fermati al 3%, e di conseguenza sono rimasti privi del carburante per spingere i consumi al momento della riapertura.

Oltre all’eccesso di debito, che sta presentando il conto, la Cina soffre di un problema più grande: la contrazione demografica. Con la riduzione della popolazione in età attiva, per proseguire nella crescita serve spingere la produttività. Motivo per cui da più parti si ritiene che la crescita potenziale cinese oggi sia la metà del 5% ipotizzato.

ADDIO ELDORADO PER GLI OCCIDENTALI

La fragilità del modello di crescita cinese è improvvisamente sotto gli occhi di tutti. O meglio, di chi vuole vederla. Quindi -pare- non degli analisti delle banche americane, con una singolare distonia rispetto alla crescente e aspra competizione tra i due blocchi. Tentare di tenere i piedi su due terreni che stanno lentamente allontanandosi può fare molto male. Così come ignorare i crescenti segnali di debolezza strutturale per battere la grancassa della corsa a un eldorado che sta svanendo, sia in assoluto che per gli occidentali.

Come dimostra la fortissima crescita del settore delle auto elettriche cinesi, che stanno invadendo il mondo partendo dall’Europa e dalla Russia, mentre spingono all’angolo i costruttori occidentali che operano nel paese asiatico, costringendoli a disimpegni o improbabili focalizzazioni sull’alto di gamma per proteggere i margini. Tesla resiste, ma a nessuno sfugge che potrebbe essere la prossima vittima di questa campagna silenziosa ma inesorabile di ridimensionamento dei costruttori occidentali nel paese. Anche per questo la società di Elon Musk sta usando i suoi impianti cinesi come hub di esportazione globale. Sin quando a Washington starà bene.

Ma, al netto di questi apparenti successi, il gigante asiatico è in affanno e prossimo alla fine di un modello di sviluppo a debito così sinistramente simile a quello occidentale ma senza la costosa sovrastruttura di un edificio di welfare. Che tuttavia dovrà essere creato d’urgenza, per evitare che il regime entri in una pericolosa crisi di consenso. Il tutto mentre cerca di gestire un’altra crisi di debito, quella dei paesi emergenti a cui ha prestato a condizioni opache ma in prevalenza di mercato, attirandoli in una trappola di debito a sostegno della proiezione geopolitica internazionale di Pechino, e che ora presenta al creditore un conto molto salato. Per Xi, che si affidava al debito (proprio e altrui) per fare della Cina una potenza globale in corsia di sorpasso degli americani, sta arrivando la nemesi. Gli investitori occidentali farebbero bene a prendere nota, ed essere prudenti.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

 

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