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Chicago e Parigi: Obama e Ségolène

Qualche giorno dopo la vittoria di Obama alle elezioni presidenziali americane, qui in Francia sono state votate le mozioni del prossimo congresso del partito socialista francese (PS), i cui risultati sono passati quasi totalmente inosservati dalla stampa italiana (almeno quella online che frequento), che invece ha dato (giustamente) un enorme spazio alle farneticanti dichiarazioni del “nostro” Silvio e dei suoi accoliti. I risultati delle consultazioni degli iscritti al PS sono stati, un po’ inaspettatamente, favorevoli a Ségolène Royal che, pur non riportando la maggioranza assoluta, è arrivata con il 29% avanti ad entrambi i “baroni” del PS, ovvero il sindaco di Parigi Delanoe e il sindaco di Lilla (ex-ministro di Jospin, nonché figlia di Jacques Delors) Aubry, che hanno ottenuto il 25% ciascuno. Visto da lontano sembra al contrario una sconfitta per Ségolène, invece è proprio il contrario. Dopo le presidenziali gli apparati del partito non hanno perso un istante a “mangiarsela”, ridicolizzarla, marginalizzarla. Ma cosa ha proposto il PS? Il solito refrain socialista che nei momenti di crisi riprende i vecchi slogan che sembrano usciti dagli anni settanta e ignorano completamente la società di oggi, il mondo di oggi, i desideri e i bisogni di oggi. O una figura paternalista, il tentativo di un nuovo Mitterrand che si benevolmente si occupi come un monarca settecentesco dei bisogni del popolo. Anche Ségolène ha “guardato” a sinistra, anche lei non è una figura sconosciuta nel panorama politico francese. Ma cosa la distingue dagli altri?


L’essere, e soprattutto l’apparire, per un rilancio della politica, per una proposta del partito che non sia trovare i migliori funzionari, professori, politologi, dirigenti tristi, grigi, logorroici, votati a discussioni infinite sul fatto se il PS debba essere liberale, socialista, sociale, anticapitalista etc … parole, noiose anche per i francesi, evidentemente. Ma soprattutto si tratta di parole e di un modo di agire che danno una visione chiusa del partito. Chiusa alle persone e alle idee. E i militanti iscritti al PS hanno dato un ulteriore segnale di volontà di apertura e rinnovamento. Non so come andrà a finire, poiché nessuna mozione ha ottenuto la maggioranza relativa ora i vecchi giochi dei congressi dei partiti del secolo scorso decideranno la linea politica, la piattaforma programmatica, e, quindi, il “primo segretario”. Non è forse contro questo modo di agire paludoso, vuoto, lontano dalla realtà che il voto per Ségolène e per Obama è stato indirizzato? Dicevano che Ségolène non aveva un programma, come lo dicevano per il PD, e come non l’aveva neanche Obama. Ma cosa si vorrebbe mettere in un programma? Una volta il programma poteva essere l’applicazione di un dettato ideologico, pensare che un partito dovesse guidare la società, indirizzare la vita dei cittadini dalla nascita alla morte, financo suggerendo il menù. E la destra ha (aveva?) il programma semplice dell’applicazione indiscriminata del liberismo incondizionato e incondizionabile. Anche questo un modo dirigista di gestione della politica e dei governi.

 E’ mai possibile nel mondo (di oggi e di ieri) poter pretendere di regolare dall’alto una società umana? E soprattutto, è questo il compito della politica, soprattutto quella di sinistra? Una mia amica mi scriveva recentemente:



Leggevo stamattina che Obama non ha una programma, e chissene frega, lui è il sogno, questo conta, quando non si sogna più e si pensa solo al benessere, vuol dire che si è perso qualcosa di importante. Gli americani lo hanno capito, noi ancora no.

Obama e Ségolène, ognuno con toni e modi diversi come diverse sono le società americana e francese, hanno proposto una visione del mondo basata sulla partecipazione, sull’inclusione, sul dialogo. Un sogno in cui tutti sono invitati a entrare. Non sempre è poi vincente nelle elezioni ed ora non voglio qui discutere sui motivi che hanno portato la vittoria di Sarkozy su Ségolène. Ma si tratta di un nuovo modello di sinistra, che, a fatica, cerca di imporsi. Una sinistra anche populista nel senso che è molto basata sulla comunicazione, sulle emozioni, sul richiamarsi “al popolo” e poco su polverosi e omnicomprensivi trattati che pretendono di risolvere tutti i problemi del mondo (ultimo grottesco esempio era il programma dell’Unione), una sinistra che non si identifica con professori, tecnocrati, sapientini che pensano di avere le soluzioni in tasca, ma che rimette al centro i cittadini, i bisogni quotidiani, li rende uguali nel senso dei diritti, di una democrazia che non vuol dire dittatura della maggioranza ma rispetto delle scelte, dei desideri, delle visioni del mondo, delle priorità di vita.

La strada è dura, soprattutto nella vecchia europa dove l’aristocrazia (intesa in senso largo, come aristocrazia di tecnici e intellettuali, come aristocrazia degli apparati, come aristocrazia dei circoli chiusi) non è mai totalmente sepolta ma forse ancora una volta un popolo giovane, coraggioso, che non ha mai incoronato un re, può mostrare un modo di fare e farci scendere dal piedistallo della nostra spocchiosa presunta superiorità culturale.

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