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Che fine ha fatto la carne sintetica?

Il primo hamburger in vitro è stato cucinato (e mangiato) nel 2013. Oggi gli scienziati cercano di chiarire se siamo davvero alle porte di una rivoluzione del cibo

di  Eleonora Degano

Sono trascorsi quasi tre anni da quando Mark Post, direttore del dipartimento di fisiologia dell’Università di Maastricht, ha presentato al mondo il primohamburger artificiale. “Cresciuto” in provetta per tre mesi, aveva raggiunto e superato le 20mila fibre muscolari. Una volta tagliate e pressate, per creare la caratteristica polpetta di carne macinata, erano biologicamente identiche agli hamburger che acquistiamo dal macellaio o al supermercato. Forse solo un po’ più costose, visto che l’intero procedimento per questo “hamburger pioniere” di fibre e grasso è costato 250.000 dollari, finanziati dal co-fondatore di Google Sergey Brin, entusiasta dell’idea e anche di come questa è stata accolta dal pubblico. Se un progetto di quel tipo non sembra fantascientifico, ha commentato al tempo, allora non è poi così innovativo.

Il procedimento di Post era stato già descritto nel 2012 e di carne artificiale si parla almeno dal 2000. Eppure gran parte della discussione è rimasta in sordina -tolta una menzione del TIME tra le migliori invenzioni del 2009– fino a quando l’assaggio ufficiale ha riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo. Era l’agosto del 2013 e decine di giornalisti si sono riuniti negli studi di Riverside a Londra per assistere allo show-degustazione. L’hamburger più costoso del mondo è stato messo in buone mani, visto che a cucinarlo ci ha pensato lo chef Richard McGeown (che ne va molto fiero e l’ha inserito nella sua bio di Twitter).

Il costo di produzione esorbitante era ed è a oggi uno dei limiti più grandi che frenano l’industria della carne sintetica dallo sbarcare con fiducia nei nostri banchi frigo. Al debutto del suo primo hamburger Post aveva accennato a un periodo di 20 anni, entro i quali pensava che la carne in vitro sarebbe diventata una realtà concreta (anche in termini di costi). Oggi è più ottimista e la proiezione si è decisamente ristretta: cinque anni, grazie alla nascita di Mosa Meat. Si tratta di uno spin off dell’Università di Maastricht in cui 25 ricercatori sono al lavoro esclusivamente sull’hamburger in provetta. Primo obiettivo: abbattere i costi e individuare le tecnologie più efficienti per migliorare la produzione, mentre la carne in vitro si evolve per diventare più simile a quello che chiamiamo hamburger e meno a un insieme di fibre e grasso.

Verso il futuro della carne sintetica

Post e colleghi, come anche gli assaggiatori coinvolti nel debutto londinese del 2013, sono consapevoli che il primo hamburger era ben lontano dall’ideale. “Era composto da proteine e fibre muscolari, ma la carne è molto più di questo”, ha commentato alla BBC Peter Verstrate all’annuncio della fondazione di Mosa Meat, di cui è co-fondatore con Post. “È sangue, grasso, tessuti connettivi. Sono tutti questi elementi a contribuire al suo sapore e alla sua consistenza. Per ottenere carne vera bisogna riprodurli tutti, e con le attuali tecnologie di ingegneria tissutale è possibile”.

Nel 2013, in fondo solo tre anni fa, a quanto pare era ancora troppo complesso. Il primo hamburger era stato assemblato praticamente a mano, aggiungendovi gli aromi per il sapore e dei coloranti per renderlo “più rosso” (colorazione che la carne vera deve alla proteinamioglobina) e plasmandolo a formare la polpetta. Quelli del futuro potrebbero arrivare da una stampante 3D, già predisposta per stamparli nella forma desiderata. A Mosa Meat sono fiduciosi nel successo della ricerca, ma anche in un aspetto altrettanto non scontato: pensano che il pubblico accoglierà con gioia un’alternativa sostenibile alla carne tradizionale, anche se sembra uscita da Star Trek.

Il quadro proposto da Post è questo: tra qualche anno ci troveremo di fronte al banco frigo, con due possibili scelte allo stesso prezzo. Un hamburger tradizionale e uno cresciuto in vitro, in modo più “environmental-friendly” e senza la sofferenza di alcun animale. La scelta diventerà via via più immediata e la carne artificiale cruelty free sostituirà gradualmente quella che conosciamo.

Uno dei possibili punti deboli, sollevati da subito anche dalla biologa Christina Agapakis (unalettura critica interessante), era proprio la combinazione tra cruelty free e i costi per passare alla produzione su larga scala. Con particolare attenzione per il siero fetale bovino in cui crescono le cellule della carne artificiale, un prodotto secondario della stessa industria della carne che viene raccolto dai feti durante il processo di macellazione. Si tratta del supplemento più usato per le colture cellulari di cellule eucariote, alle quali fornisce ormoni, vitamine fattori di crescita e molto altro. Non solo una mazzata al cruelty free (si tratta, volendo semplificare, del sangue di vitelli mai nati), ma uno sprint notevole per i costi. Agapakis nel 2012 metteva le mani avanti con notevole scetticismo, scrivendo

“La coltura cellulare è una delle tecniche più costose e che richiedono più risorse della moderna biologia. Tenere le cellule al caldo, in salute, ben nutrite e libere dai contaminanti richiede un sacco di fatica ed energia, anche nei recipienti da 10.000 litri usati dalle compagnie biotech. Per di più, anche in questi recipienti così sofisticati, le tecnologie tridimensionali richieste per crescere delle vere bistecche -con un misto tra muscoli e grasso- non sono ancora state inventate. E non perché non abbiano tentato. Aggiungendoci il fatto che questi mucchietti di carne tridimensionali dovrebbero essere mobilizzati regolarmente con macchinari che li allunghino, sostanzialmente creando delle palestre per la carne, possiamo iniziare a capire che incredibile sfida sia la produzione di carne in vitro su larga scala”

Nelle interviste più recenti Post ha spiegato che il limite del siero fetale bovino era uno di quelli che la ricerca avrebbe superato presto, sperimentando con una serie di alternative (che sta facendo assaggiare anche a vegani e vegetariani) che non richiedessero prodotti di origine animale, ad esempio delle miscele con lieviti, aminoacidi, sali e zuccheri. In questi ultimi anni la letteratura scientifica sulla carne in vitro si è arricchita di molti contributi: se da un lato l’ottimismo rimane, perché l’idea di un’alternativa sostenibile è una “sfida etica” che sarebbe ingiusto ignorare, dall’altra la fattibilità viene ancora messa in discussione.

Carne sintetica amica dell’ambiente?

Bistecche e hamburger in provetta non sono più fantascienza: seppur lontani dal diventare davvero una realtà quotidiana, sembrerebbero una possibile soluzione all’enorme impatto ambientale richiesto dalla produzione di carne tramite allevamenti intensivi, il cui ruolo nel cambiamento climatico non si può più trascurare. Il consumo eccessivo di carne, un’abitudine tutta moderna che possiamo permetterci grazie a costi spesso contenuti, non è un problema solo per la salute (l’OMS è stata molto chiara nel sottolineare che la moderazione è la via migliore) ma soprattutto per il prezzo che chiede al pianeta.

La teoria dietro alla carne in provetta è estremamente lineare: potrebbe essere prodotta in grandi quantità grazie alle straordinarie capacità delle cellule staminali, in grado di moltiplicarsi in gran numero. Rispetto alla carne tradizionale non ci sarebbe bisogno di grandi fattorie e allevamenti, ma solo di pochi individui dai quali prelevare le cellule: ridotte emissioni di anidride carbonica, sempre meno animali uccisi, sembra un win win per tutte le parti.

Un aspetto trascurato, ma tra i più affascinanti volendo fantasticare, è la possibilità di recuperare il rapporto con l’animale che mangiamo. Oggi andiamo al supermercato, peschiamo dal banco frigo la carne che ci interessa già sotto forma di alette, petto, filetti, l’animale intero da cui proviene non ci sfiora nemmeno la mente. Il pesce ce lo facciamo “pulire”, di rado prepariamo per la cottura qualcosa che abbia ancora la testa attaccata: così la mucca, il maiale, il pollo e il coniglio come “animali della fattoria” diventano entità quasi separate da quelle che mangiamo. Uno scenario interessante è quello di piccole realtà in cui dalle cellule di un singolo maiale o mucca, che pascola liberamente all’esterno, deriva l’intera produzione di carne per un paese. Un maiale o una mucca che le persone possono vedere, e collegare alla carne che stanno per acquistare con la consapevolezza che è costata al suino “solo” un prelievo di cellule.

Eppure, tornando alla scienza, le preoccupazioni sono ancora molte: a partire dalle tecniche di produzione in vitro ben lontane dall’efficienza e dalla precisione richieste, da un punto di vista ambientale ed economico. Alla fine del 2015 Jean-François Hocquette del French National Institute for Agricultural Research ha messo insieme la letteratura scientifica disponibile in un articolo sulla rivista Meat Science, ed è emerso che molti esperti continuano a essere scettici sul fatto che vedremo hamburger artificiali in vendita a basso costo in tempi brevi.

Gli studi più recenti hanno provato a quantificare il “ciclo vitale” della carne sintetica, valutando il suo potenziale nel ridurre l’eutrofizzazione (causata anche dai liquami degli allevamenti) e losfruttamento del suolo. Secondo una ricerca che ha valutato il mercato statunitense le tecnologie che utilizzeremo per la crescita di carne in vitro hanno a oggi un’elevata richiesta di energia, dunque non possono essere “liquidate” come un’alternativa migliore tout-court. Un’altra indagine è arrivata a risultati più ottimisti, concludendo che -sempre a fronte di grosse incertezze- l’impatto ambientale sarebbe molto minore.

Anche sul fronte dei fattori di crescita e degli ormoni non si sfugge, precisano gli scienziati: una carne, per quanto sintetica, necessita di energia sotto forma di carboidrati e lipidi, di aminoacidi per permettere alle cellule di sintetizzare proteine e altre macromolecole. Lo stato dell’arte della tecnologia, come dicevamo, prevede di utilizzare il siero fetale bovino e trattandosi di una coltura in vitro va protetta con antimicrobici dall’azione di funghi, batteri e via dicendo. La questione sicurezza è enorme e in grossa parte da esplorare, anche perché qualsiasi nuovo alimento deve superare l’approvazione degli enti specializzati prima di poter essere messo in vendita.

La percezione del pubblico

Per ogni chilogrammo di carne di manzo tradizionale che arriva in tavola, vengono consumatioltre 15000 litri d’acqua. Cifre che spaventano, quando vengono messe nero su bianco, ma che devono fare i conti con una cultura di consumo della carne che affonda le sue radici molto indietro nel tempo. I nostri antenati mangiano carne da almeno 1,5 milioni di anni, e fino al 2008 era almeno il 90% della popolazione del pianeta a nutrirsi di carne, occasionalmente o spesso. Il dilemma diventa via via più fitto, perché a fronte di un’elevata richiesta di carne, l’industria deve gestire anche a una crescente attenzione del consumatore, interessato albenessere animale e alla qualità di quanto arriva sul suo piatto.

Dopo la presentazione del primo hamburger artificiale è stata condotta un’analisi quantitativadei commenti comparsi sotto gli articoli che ne parlavano. I ricercatori hanno analizzato 814 commenti lasciati da 462 persone su sette riviste statunitensi (The New York Times, The Los Angeles Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, USA Today, Cable News Network e National Public Radio) per capire da subito come fosse stata percepita la novità. Il tono generale era più negativo che positivo: il pubblico aveva ben chiare le possibilità offerte dalla carne in vitro in materia di impatto ambientale, ma allo stesso tempo la vedeva come unalimento innaturale e decisamente poco appetitoso. Una delle più grosse barriere da abbattere era quella del rischio, perché una carne cresciuta completamente in laboratorio sembrava a molti potenzialmente pericolosa per la salute.

Da allora sono passati quasi tre anni, ma il tema torna alla ribalta di rado catalizzando l’attenzione per qualche giorno e poi sprofonda nuovamente nell’oblio delle cose che “potrebbero arrivare in un prossimo futuro”. I media ne parlano in termini di benefici per ambiente e salute, chiamando in causa a più non posso Winston Churchill e la sua famosa citazione “We shall escape the absurdity of growing a whole chicken in order to eat the breast or wing, by growing these parts separately under a suitable medium. Synthetic food will, of course, also be used in the future” (Dovremmo lasciarci alle spalle l’assurdità di allevare un pollo intero per mangiarne il petto o le ali, facendo crescere queste parti separatamente in un mezzo appropriato. Nel futuro, questo è certo, mangeremo anche cibo sintetico).

La percezione del pubblico è un aspetto cruciale soprattutto se consideriamo quanta diffidenza circondi ancora temi ben meno recenti, come gli alimenti geneticamente modificati o la possibilità di mangiare insetti come fonte di proteine. Non da meno, va ricordato quanto siano sempre più appealing per il pubblico concetti come “biologico” e “naturale” -anche se non sempre ci sono basi scientifiche dietro alla maggior sicurezza e qualità percepite dal consumatore-. Se la tabella di marcia di Post è realistica, la carne sintetica potrebbe arrivare nei banchi frigo prima che la società sia pronta ad accoglierla.

L’aspetto sul quale puntare, che sembra aver conquistato lo spicchio di pubblico (e discienziati) dalla mentalità più aperta, è quello dei benefici sociali e della “necessità morale” di sviluppare un’alternativa. Allo stesso tempo manca un consenso generale intorno a questi temi, perché per ora è difficile avere la certezza che la carne in vitro avrà performance migliori in termini di impatto ambientale. Si affollano le domande anche su altri aspetti, ad esempio sull’impatto di questa innovazione sulle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, o sulla sorte degli animali d’allevamento in un ipotetico futuro in cui non saremo più incentivati a farli riprodurre. In Europa il dibattito chiama in causa anche le tradizioni culinarie e quelle agricole, nonché il ruolo di quella parte di industria che vive d’allevamento. Non si tratta “solo” di risparmiare la vita a un numero enorme di animali, ma di portare sul pianeta una piccola rivoluzione del cibo.

La questione più immediata e comprensibile è infatti un’altra: abbiamo davvero bisogno di investire grandi somme e risorse in ricerca e sviluppo per la carne artificiale, quando i consumatori potrebbero “semplicemente” cambiare le proprie abitudini alimentari e raggiungere gli stessi obiettivi?

Tutti questi aspetti, dal prezzo di mercato rispetto alla carne tradizionale fino alla sicurezza alimentare, potranno verosimilmente essere risolti dalla ricerca scientifica dei prossimi anni. Eppure nessuno ci garantisce che, proprio come oggi siamo riluttanti a rinunciare al sovra-consumo di carne, domani non lo saremo altrettanto nell’abbandonare quella “vera” di fronte a un’alternativa magari più costosa. Le evidenze scientifiche non necessariamente saranno sufficienti a tranquillizzare il pubblico e convincerlo a provare. Il “non naturale” è sempre dietro l’angolo e a minare la carne in vitro ancor prima che arrivi c’è il cosiddetto “yuck factor”, letteralmente il “fattore bleah”, riscontrato dagli scienziati sia da parte del pubblico che da parte dei media. La linea che separa la produzione di carne in vitro da tecnologie come la clonazione, nella percezione pubblica, è davvero molto sottile.

Un’indagine recente -condotta su oltre 800 tra scienziati e studenti universitari- ha mostrato che la maggior parte delle persone considera la carne artificiale una possibilità concreta, ma una percentuale minima, tra il 5 e l’11%, la mangerebbe o la consiglierebbe davvero. A oggi è ancora difficile fare una stima affidabile, ma l’opinione favorevole del pubblico non andrebbe affatto data per scontata. Il pubblico, dopotutto, è niente meno che il destinatario finale di tutto questo.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: La lotta al junk food

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.

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