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Caso Nisman: l’anno elettorale in Argentina inizia col botto

Lo scorso 18 gennaio Alberto Nisman, il procuratore che stava investigando sull’attentato alla “Amia”, la mutua ebraica assaltata nel 1994 con un’autobomba, e che costò la vita a 85 persone con 300 feriti, viene trovato morto nel suo appartamento. Il proiettile che l’ha ucciso è uscito dalla pistola che giace di fianco a lui, ma non c’è polvere da sparo sulle sua mani.

L’arma gli è stata consegnata il giorno prima da Diego Lagomarsino, suo collaboratore nella task force Amia, che da successive verifiche risulterebbe assunto con un ruolo poco chiaro e uno stipendio spropositato per la sua funzione. Nisman gli avrebbe chiesto un’arma su indicazione di Stiuso, ex direttore della sezione di counterintelligence dei servizi segreti argentini fino allo scorso dicembre, e suo assiduo frequentatore (una relazione di subordinazione del procuratore, secondo il giudice Rodolfo Canicoba Corral) , che gli avrebbe suggerito di prendere precauzioni perché la sicurezza di cui godeva non era sufficiente.

Nisman era tornato all’improvviso da una vacanza in Europa, e stava per consegnare un memoriale di 300 pagine in cui dimostrava la complicità del governo, e in particolare della presidenta Cristina Kirchner, nel depistaggio subito dalle investigazioni in tutti questi anni, nascondendo le responsabilità di alcuni agenti iraniani nell’attentato alla “Amia” per proteggere i rapporti commerciali con Teheran. La notte prima di recarsi in tribunale e provocare un sconvolgimento epocale del sistema politico argentino, il procuratore muore nel suo appartamento della zona più lussuosa di Buenos Aires, Puerto Madero.

Pronti, via. I media monopolistici argentini (seguiti a ruota da quelli nostrani), la gente nelle strade con i cartelli “je suis Nisman”, anche la comunità ebraica, emettono la sentenza: è stata la presidenta, il caso è chiuso. Troppo facile.

Spie che non sono spie, prove che non esistono…

Dopo qualche giorno, infatti, viene reso pubblico il famoso memoriale, che contiene intercettazioni ma soprattutto articoli di giornale e “sentito dire”. Gira tutto attorno al trattato internazionale firmato dai governi di Iran e Argentina nel gennaio 2013, e ratificato dal parlamento un mese dopo, che dovrebbe consentire finalmente di interrogare 5 degli 8 sospettati iraniani per l’attentato alla Amia, quasi tutti alti funzionari di Teheran (uno, Ahmad Vahidi, ministro della difesa fino ad agosto 2013). Presentato con la promessa che avrebbe rivelato i retroscena segreti di quanto era già di pubblico dominio, ovvero la resistenza iraniana a far svolgere gli interrogatori, delude.

Tutti i commentatori non appartenenti ai giornali di destra (compreso il giornalista Verbitsky, membro del collettivo Memoria Activa che rappresenta familiari delle vittime della Amia e l’ex giudice della corte supema Raúl Zaffaroni) concordano nel giudicare inconsistenti le accuse contenute nell’indagine, e soprattutto nel constatare che non vengano fornite prove atte a suffragarle. Moltissime infatti le contraddizioni. Anzitutto il ruolo di due uomini dei servizi (Ramón Alan Héctor Bogado e Héctor Yrimia, nel frattempo fermati dalla polizia) che avrebbero fatto da “ponte” con l’Iran e depistato le indagini: la loro appartenenza alla Segreteria di Intelligence è stata negata dal suo direttore Oscar Parrilli. Anzi, uno dei due (Bogado) era stato denunciato per aver ripetutamente millantato di essere un agente dalla stessa agenzia di intelligence il 12 novembre del 2014, un’informazione che sarebbe passata per le mani di Stiusso, il quale l’avrebbe però nascosta a Nisman.

Poi quello di due dirigenti di movimenti sociali (D’Elia e Esteche) vicini al partito della Kirchner, dei quali vengono riportate conversazioni con il governo iraniano nelle quali parlano con un certo Khalil, ritenuto un agente iraniano che afferma che “l’Iran ha ammazzato”. Nonostante il clamore con cui si è presentato questa relazione, le telefonate contenute nel memoriale provano solo che i due avessereo simpatia per il regime iraniano, non che fossero suoi agenti, né chi sia questo Khalil o a quali responsabilità del suo governo si stesse riferendo.

Infine cade uno dei perni centrali dell’accusa di Nisman, “l’allarme rosso”, ovvero la presunta pressione del ministro Héctor Timerman sull’Interpol perché fossero revocati gli ordini di cattura internazionale di alcuni funzionari iraniani sospettati, su richiesta di Teheran. L’ex capo della agenzia internazionale Ronald Noble (statunitense) ha però negato il fatto, dichiarando invece che la posizione del governo argentino fosse sempre rimasta ferma e favorevole al loro mantenimento, e che Nisman mentiva, affermando il contrario.

Emerge poi che la maggior parte delle informazioni utilizzate da Nisman nelle indagini venivano direttamente da Stiuso (conosciuto per essere vicino ai servizi di Usa e Israele), che spingeva perché si seguisse la pista Iraniana piuttosto che indagini alternative.

Argenleaks: Stati Uniti, Israele e… la pista siriana

Ma non è finita qui. Il giornalista Santiago O’Donnell, che ha ricevuto nel 2011 da Julian Assange migliaia di comunicazioni riguardanti l’Argentina (sulla base dei quali ha scritto i libri “Argenleaks” e “Politileaks”) sostiene che Nisman, che all’apparenza era molto vicino al presidente Nestor Kirchner, dal quale nel 2005 aveva ricevuto l’incarico di investigare sulla Amia, fosse un fedelissimo dell’ambasciata Usa. Al punto che avrebbe in più occasioni concordato con Washington la pubblicazione di informazioni e avrebbe chiesto scusa in altre, come quando annunciò di voler interrogare l’ex presidente Menem senza aver preventivamente avvertito.

E poi c’è Israele. Il paese dove è scappato Damian Patcher, il giornalista del Buenos Aires Herald che per primo aveva dato credito alle voci sulla morte di Nisman e diffuso la notizia. Spaventato dal possibile sviluppo degli eventi, ha raggiunto l’Uruguay e da li Madrid per poi rifugiarsi in Israele.

Israele, dal quale il quotidiano Haaretz avverte la comunita’ ebraica argentina di non prestarsi al gioco della destra, la cui “rivoluzione” contro Cristina finirebbe per significare la loro rovina. Esigere la verità sulla Amia e su Nisman, ma senza lasciarsi confondere dall’alleanza tra lo stato ebraico e l’opposizione all’attuale governo. Ci sarebbe da imparare, dice, dai tempi della dittatura, quando il paese Israele forniva quelle armi che servivano alla giunta militare per reprimere anche gli ebrei argentini.

Israele, che in questi anni ha insistito al pari di Washington perché le indagini, sulla Amia ma anche sull’attentato del 17 marzo 1992 alla sua ambasciata a Buenos Aires (29 morti e 242 feriti), si concentrassero sull’Iran. E la cui pressione diplomatica non è mai stata nascosta, come occorso dopo la firma del trattato con Teheran, ritenuto un passo falso, quando l’ambasciatore chiese spiegazioni al governo e la Kirchner denuncio’ “energicamente” l’intromissione, non essendoci tra l’altro fra le vittime della Amia alcun cittadino israeliano.

Le radici di questa brutta storia affondano però in un periodo politico completamento diverso all’attuale, quando c’era un altro presidente: Carlos Menem. Il 15 marzo 1995 suo figlio Carlitos Jr muore in un incidente aereo alquanto sospetto. L’elicottero che pilota perde potenza, taglia alcuni cavi elettrici e precipita lungo la strada che unisce Rosario a Buenos Aires. Le indagini, che dimostrano che l’elicottero è stato colpito da alcuni proiettili sparati da terra, si insabbiano. Undici testimoni o periti che parlano di omicidio vengono uccisi in circostanze mai del tutto chiarite, mentre altri tre vengono feriti o minacciati, compreso il primo procuratore incaricato delle indagini, Amalia Sívori, che le abbandona. Quello che i tribunali non hanno mai accertato è quello che ormai tutti sanno, quello che la madre di Carlitos, Zulema Yoma, dice da sempre e che suo padre Carlos si è rifiutato di ammettere fino a tempi recenti: è stato ucciso per dare un messaggio al padre. Sul chi lo abbia voluto dare e perché, però le interpretazioni si dividono.

Una direzione è sicuramente quella del narcotraffico, introdotto prepotentemente in Argentina negli anni ’90 e al quale l’ex presidente Menem non è affatto estraneo. Al punto che recentemente una ex amante del narcos colombiano Pablo Escobar ha assicurato che l’omicidio di Carlitos è stato commissionato dai soci del re della droga per punire Menem per non aver rispettato alcuni accordi sul lavaggio di denaro. Addirittura Menem avrebbe fatto imprigionare la vedova e i figli di Escobar per poi rilasciarli ma sottraendogli parte del denaro del narcotrafficante. Pur non essendo in alcun modo verificata, questa supposizione sarebbe sicuramente verosimile e non incompatibile con la versione dei “tre colpi arabi” o “pista siriana”.

I giornalisti Christian Sanz e Jorge Lanata concordano nel collegare infatti strettamente tra loro l’omicio di Carlitos Menem con l’attentato alla Amia e all’ambasciata israeliana (e tutti gli omicidi collaterali, dai teste dell’incidente aereo a Nisman, aggiungeremmo noi). Lo scenario è quello di un accordo tra Haffez Al Assad e Menem nel 1988, finanziamento della campagna elettorale del futuro presidente in cambio della fornitura di un reattore nucleare. Il mancato rispetto di questo patto innesca la reazione siriana, tre colpi, ciascuno più vicino all’obiettivo, Carlos Menem: l’ambasciata, la Amia, suo figlio. I motivi potrebbero essere stati, oltre alla mancata collaborazione nucleare (che si avviò invece con l’Egitto, su pressione di Washington), la non restituzione dei soldi prestati per la campagna elettorale o la loro “pulizia” attraverso il narcotraffico, appunto. Ma anche conseguenze del traffico di armi con il siriano Monzer Al Kassar, collegato all’esplosione del deposito militare di Río Tercero nel 1995, probabilmente per distruggere le prove della sottrazione delle armi contrabbandate.

Perché allora gli investigatori non hanno seguito questa pista, concentrandosi invece sull’Iran? Secondo Lanata e Sanz la risposta starebbe nella rete di copertura che in questi anni ha lavorato per nascondere le responsabilità siriane (e di Menem) e incolpare l’Iran.

A chi rimarrà in mano la pistola fumante?

La morte di Nisman appare quindi come l’ultimo capitolo di una storia agghiacciante, iniziata oltre 25 anni fa e talmente contorta che addossarne ora l’intera colpa (per i ritardi nelle investigazioni, ma anche per la fine di Nisman) alla presidentessa in carica appare abbastanza ridicolo e strumentale. La destra argentina sta abilmente cavalcando l’onda dell’indignazione popolare per quello che tutti ormani considerano un omicidio a sangue freddo (e ci sarebbero già alcune conferme, anche se ancora da verificare), puntando a delegittimare l’azione del governo e a fare di Nisman un martire.

La Kirchner ha però in un certo senso ribaltato il tavolo, cercando di non rimanere sola come indiziata sulla scena del crimine. Ha detto chiaramente che considera Nisman vittima e pedina inconsapevole delle trame contro la verità sulla Amia che hanno ostacolato le indagini fin dall’inizio, e che la sua morte serviva ai suoi manovratori per attaccare il governo, una volta che l’inconsistenza del suo memoriale di accuse fosse parsa ovvia a tutti. Ha fatto anche i nomi: Stiuso e, in minor misura, Lagomarsino. Il secondo, il tecnico informatico da molti considerato un agente dei servizi sotto mentite spoglie, è stato fermato, mentre del primo si sono perse le tracce. Ma il passo decisivo è stata la decisione di ristutturare i servizi di sicurezza e creare un nuovo organismo che si occupi anche di narcotraffico. La AFI (Agenzia Federale di Intelligence) avrà una direzione nominata dall’esecutivo ma approvata dal Senato e dovrebbe essere in parte “ripulita”.

Seppur mostrando il fianco alla destra per l’intempestività con cui questa riforma dell’intelligence viene realizzata, ovvero proprio quando la teoria dei “servizi deviati” fa pensare ad una vendetta della presidenta, la Kirchner manda così un segnale chiaro al paese su quale sia la sua posizione sulla materia: trovare finalmente i responsabili delle troppe morti avvenute finora. La “pistola fumante” è ora simbolicamente nelle mani di chi continua a sostenere, e senza prove, che la responsabilità politica (se non materiale) della morte di Nisman sia dell’attuale governo. Le accuse del procuratore sono infatti crollate come un castello di carte e il "je accuse anti-kirchnerista" deve ora fornire una tesi alternativa, più complessa, in cui venga chiamata in causa anche l’aristocrazia peronista degli anni ’90 e i numerosi casi di insabbiamento e depistaggio verificatisi ben prima dell’ascesa della presidenta e della morte di Nisman.

Ciononostante, non sono poche le critiche che vengono a Cristina “da sinistra”. La Kirchner è alla fine del suo secondo mandato, il terzo dell’era “K”. Avrebbe potuto tentare più energicamente di riformare quell’intelligence ancora troppo legata alla dittatura militare e ai servizi esteri, quel “debito con la democrazia” improvvisamente riscoperto, molto prima, e in momenti politici più idonei, come l’inizio dei suoi due mandati. Lo stesso Stiuso è rimasto a capo della counterintelligence per più di dieci anni prima di essere improvvisamente licenziato lo scorso dicembre ed essere additato ora come un infiltrato fabbricatore di trame contro il governo. Infine forse l’aspetto più preoccupante per la faccenda Amia è che secondo O’Donnell la Kirchner (e il peronismo K in generale, assieme ai media ostili al governo e alla comunità ebraica) avrebbe in questi anni difeso a spada tratta l’operato di Nisman e la sua indagine, ignorando le varie denuncie sulla mancanza di indipendenza sua e di Stiuso, per poi distanzarvisi radicalmente solo quando inizio’ a concentrarsi sull’attuale governo e non piu’ su Menem. Da eroe a traditore.

La stessa Kirchner secondo Sanz avrebbe più volte cambiato idea da quando negli anni ’90 sosteneva la “pista siriana” come presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, dichiarando quella iraniana “falsa”. La prima volta nel 2003 dopo un viaggio negli Stati Uniti con il marito e si sarebbe mantenuta fedele a questa impostazione finché non le si è recentemente rivolta contro. In un recente incontro con Zulema Yoma, la madre di Carlitos Menem, avrebbe dichiarato di essere convinta dell’omicido di suo figlio e della teoria dei “tre colpi”, tornando quindi all’ipotesi iniziale.

Tutti invocano ora una indagine approfondita e rapida, per scoprire la verità sulla morte di Nisman e da lì risalire all’indietro fino ai massacri degli anni ’90. Come spesso accade, però, sarà difficile ottenere una verità inconfutabile e unica, anche se l’ipotesi del suicidio volontario è ormai quasi completamente esclusa dal dibattito pubblico, lasciando il campo all’omicidio o al suicidio “indotto” (magari da una telefonata all’ultimo minuto).

Qualcuno però ha sicuramente voluto mandare un messaggio, e i protagonisti della trama politica argentina si stanno affrontando sottotraccia in un linguaggio in codice di segnali e atti esemplari, in un anno di elezioni presidenziali che si apre pericolosamente.

Che sia una manovra per destabilizzare l’attuale governo o qualcos’altro non è dato ovviamente saperlo con certezza, ma non può sfuggire la sinistra tempestività di questa morte. Cristina Kirchner non si potrà ripresentare alle elezioni di novembre, ma la competizione per le spoglie del suo patrimonio politico-elettorale è aperta già da tempo, così come quella per conquistare la “pancia” del paese. Nel caos provocato dalla morte di Nisman, dall’emergere di servizi “ribelli” e procuratori controllati da ambasciate straniere, qualcuno proverà sicuramente ad attirare l’attenzione su di sé.

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