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CETA: la politica canta, ma i numeri non suonano

Il 15 Febbraio 2017 il Parlamento Europeo ha approvato il Comprehensive Economic and Trade Agreement (più noto come CETA) l’accordo commerciale fra UE e Canada. I 1945 giorni di trattative (da maggio 2009 a settembre 2014) hanno prodotto un documento di 1598 pagine divise in 30 capitoli e numerosi allegati. Dopo la firma dell’accordo nell’EU-Canada summit del 30 Ottobre 2016, l’ultimo atto per l’entrata in vigore ufficiale è la ratifica da parte dei 27 parlamenti nazionali (alcune parti entreranno in vigore già in Aprile).

di Guido Boccardo

Fra le disposizioni più rilevanti troviamo: l’eliminazione del 99% delle tariffe doganali (ad eccezioni di alcuni prodotti agricoli), l’apertura del mercato delle gare d’appalto per beni e servizi, il riconoscimento dei titoli professionali e nuove regole per la protezione dei brevetti industriali e dei diritti d’autore.

Una fonte di crescita per alcuni, l’ennesimo flagello neoliberista per altri. L’approvazione del CETA lascia dietro di sé una scia di contestazioni che non promette di dileguarsi. Con l’aiuto di qualche numero, proviamo a fare chiarezza rispondendo alle seguenti domande: Come si sono schierate le forze politiche sul CETA? Qual è il suo peso effettivo dal punto di vista commerciale?

I numeri al Parlamento Europeo: favorevoli e contrari

immagine ceta votes 630x354 Il CETA: la politica canta, ma i numeri non suonano

I risultati della votazione al Parlamento Europeo non appartengono ad un mondo isolato. Al contrario, essi ci mostrano un riflesso delle tendenze delle forze politiche sui vari campi nazionali.

Il CETA è stato approvato in seduta plenaria con 408 voti. In maggioranza votano compatti i popolari dell’EPP (solo 5 contrari su 206 eurodeputati) e i liberali dell’ALDE. Scontata l’opposizione delle forze sovraniste dell’ENF (Front National e Lega Nord) insieme ai parlamentari di UKIP e M5S. Seppur con argomenti diversi, si è unito al fronte del No anche la sinistra radicale (GUE e i Verdi).

La situazione più delicata la ritroviamo in casa socialista (S&D), spaccata in due (66 deputati su 174 hanno votato contro). In parte, la rottura ricalca la divisione ideologica fra gli irriducibili prosecutori della linea del Presidente vallone Paul Magnette (reso celebre dalla sua opposizione al CETA lo scorso autunno) e l’area maggioritaria più moderata (per dirla all’americana: la sinistra alla Sanders contro la sinistra alla Clinton). Ma non c’è solo questo.

Guardando ai numeri, la divisione ideologica si impregna di caratteri nazionali. Con qualche eccezione, infatti, i blocchi nazionali votano compatti. Tutti i 13 eurodeputati socialisti francesi hanno votato contro. Ad essi si aggiungono uniformemente gli austriaci, i belgi e i polacchi, insieme agli unici rappresentanti socialisti dell’Irlanda, della Slovenia e della Lettonia. Sul fronte del Sì hanno votato compatti i deputati croati, danesi, finlandesi, ungheresi, lituani e rumeni insieme al solo deputato socialista lussemburghese ed estone. Risultato misto, ma prevalentemente a favore, per le compagini tedesca (19 a favore su 24), greca, maltese, portoghese, spagnola, slovacca e italiana. La mappa ci mostra una tendenza variopinta.

votewatch 1 630x935 Il CETA: la politica canta, ma i numeri non suonano

Questa spaccatura ci suggerisce due elementi, all’apparenza contraddittori. Primo, che le divisioni nazionali contano. Secondo, che le divisioni interne ai partiti socialisti e di centrosinistra si riflettono a livello europeo. Dove si possa trovare un punto di equilibrio in questa complementarità, è difficile dirlo.

Quel che è certo è che l’intuizione dell’Economist in questo caso calza a pennello. La nuova divisione politica separa le forze dell’apertura da quelle della chiusura e pare “pensionare” le categorie tradizionali di destra e sinistra. In altre parole, da un lato si erge il fronte formato da centro-destra (EPP), liberali (ALDE) e una folta schiera di S&D. Dall’altro le forze della destra sovranista (ENF, UKIP) si uniscono alla sinistra radicale (GUE e GREENS) e ai restanti socialisti.

Quanto “pesa” il CETA: un nano in confronto al TTIP

Se le forze dell’apertura e la Commissione possono esultare, i numeri stemperano gli entusiasmi. L’Unione Europea è uno dei più grandi esportatori di beni e servizi al mondo. La politica commerciale, competenza esclusiva dell’Unione (quindi gestita direttamente dalla Commissione), rappresenta una priorità di sviluppo del mercato unico. Prendiamo in esame qualche dato per capire il peso effettivo di questo accordo commerciale.

Nel 2015, il Canada è stato l’undicesimo partner commerciali dell’Unione. Per intenderci, relativamente al commercio di beni occupa l’1,8% di share, dopo paesi come Russia (6%), Turchia (4%) e India (2,2%). A parti invertite, l’UE è il secondo partner del Canada col 9,5% di share (il primo partner canadese sono gli USA con quasi i due terzi). Concretamente, sempre nel 2015, l’UE ha esportato in Canada beni per 35 miliardi di euro e importato per un valore di 28 miliardi. Il dato relativo al commercio di servizi è di circa la metà. In questo senso, ne risulta il peso relativo dell’accordo, sensibilmente maggiore per il Canada che per noi.

 

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Fonte: EPRS & Globalstat

 

L’accordo ha, però, un peso diverso per i singoli stati membri. I dati appena citati si riferiscono infatti all’Unione nel suo complesso. Utilizzando la lente d’ingrandimento notiamo che la Germania è il primo esportatore europeo in Canada, costituendo circa un terzo degli export totali nel commercio di beni. L’altro dato rilevante riguarda la Gran Bretagna che da sola rappresenta quasi la metà del valore totale di importazione di beni dal Canada. L’Italia è il quinto partner commerciale, coinvolta per 5,1 miliardi.

 

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Fonte: EPRS & Globalstat

 

La dimensione dell’accordo cambia lievemente se guardiamo agli investimenti. Nel 2014 il Canada è il terzo investitore in Unione Europea con 165,9 miliardi di euro (alle spalle di USA e Svizzera). In senso inverso, il Canada è, per ammontare, il quarto paese destinatario di investimenti provenienti dall’UE (274,7 miliardi di euro). In termini percentuali, gli investimenti diretti dal Canada costituiscono il 3,6%, mentre gli investimenti europei verso il Canada il 4,8%.

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In ogni caso, il confronto con l’ormai fu TTIP ridimensiona il peso effettivo del CETA. A fronte dei 35 miliardi di export col Canada, negli Stati Uniti l’UE esporta beni per 371 miliardi di euro. Sulla stessa lunghezza d’onda i dati delle importazioni di beni (28 miliardi di euro dal Canada contro 249 dagli USA). Anche i dati sugli investimenti parlano chiaro. Nel 2014 gli USA sono destinatari di 1985,3 miliardi di euro (34,5% di share contro il 4,8% canadese), mentre gli investimenti diretti statunitensi in Unione Europea ammontano a 1810,8 miliardi (39,5% di share contro il 3,6%).

 

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Fonte: EPRS & Globalstat

 

 

Al netto di tutto, dobbiamo avere paura o essere contenti?

Sugli effetti del CETA le forze dell’apertura e quelle della chiusura si dividono. Mentre i primi sottolineano i benefici economici, quindi uno stimato aumento dell’export tra il 20 e il 25%, gli oppositori ne paventano i rischi, soprattutto per i nostri prodotti locali (oltre al molto contestato sistema di risoluzione delle controversie fra stati e imprese). A ben vedere, i numeri cha abbiamo visto ridimensionano entrambe le campane. Se stessimo parlando del TTIP, questo discorso avrebbe meritato un maggior approfondimento.

Al di là dei possibili effetti, vi è una questione di metodo che merita di essere citata. Nel discorso al Parlamento vallone che ha lanciato l’opposizione al CETA, il Presidente Paul Magnette ha criticato due aspetti del modus operandi della Commissione. Primo, la mancanza di trasparenza. Secondo, il poco o nullo coinvolgimento delle parti sociali e dell’associazionismo (in confronto a quello delle lobby industriali). Per un’istituzione in cerca di legittimità democratica, si tratta di due aspetti a cui la Commissione dovrà tener conto per le tappe future. Ad essa, però, il merito di aver dimostrato di saper portare a termine progetti comuni.

Finito un accordo, se ne fa un altro? Nell’ombra lunga del protezionismo d’oltreoceano il vecchio continente non sta a guardare. Per ogni muro che gli USA innalzano, si aprono nuove strade per l’UE, possibilmente a oriente. La Germania, regina dello scacchiere europeo, ha posato la prima pietra. Il rilancio delle trattative per un accordo bilaterale con la Cina è dietro l’angolo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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