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Burundi: un paese dove non c’è guerra ma il diritto alla vita vale zero

«In Burundi siano stati commessi crimini contro l’umanità, quali definiti dallo Statuto di Romavale a dire omicidi, incarcerazioni o altre forme gravi di privazione della libertà fisica, torture, stupri e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità e persecuzioni a sfondo politico». Persecuzioni che avvengono nell’impunità generale.

E’ quanto scrive, nel proprio rapporto annuale 2019 [scarica qui, in francese], presentato pochi giorni or sono all’ONU, la Commissione d’inchiesta sul Burundi presieduta dal camerunense Doudou Diène.

Le azioni, sostiene la Commissione, mostrano «un obiettivo comune, vale a dire l’eliminazione di qualsiasi opposizione politica, reale o presunta, che potrebbe mettere in discussione l’attuale governo». Nel Paese, nella primavera 2020, si svolgeranno tanto le elezioni presidenziali che quelle legislative. Elezioni alle quali il presidente Pierre Nkurunziza, nonostante le limitazioni costituzionali, ha annunciato di voler partecipare per ottenere il terzo mandato consecutivo.

Tali violenze sono iniziate nel maggio 2018, all’indomani della vittoria del “No” al referendum costituzionale voluto dal governo.

La maggior parte delle violenze sono state commesse dalle milizie dell’Imbonerakure, la lega giovanile del partito al potere CNDD-FDD, che agiscono da sole o in collaborazione con i funzionari amministrativi locali, ma anche, come è stato notato in passato, con il sostegno dei funzionari di polizia e del SNR – i servizi segreti del Paese.

In particolare, sono documentati numerosi casi di violenze sessuali di gruppo su donne e ragazze – spesso da parte delle milizie dell’Imbonerakure -, ma anche violenze sugli organi genitali nei confronti degli uomini fermati dalla polizia, esecuzioni sommarie sia tramite insistenti percosse a bastonate che con l’ausilio di armi da fuoco o armi bianche.

In questo contesto, appare superfluo parlare delle libertà di riunione o d’espressione; totalmente inesistenti. Oltre ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani, atti intimidatori non hanno risparmiato «i burundesi rimpatriati nell’ambito del programma di sostegno al ritorno volontario dalla Tanzania».

La Commissione, inoltre, esaminando le condizioni delle carceri locali, ha stabilito che in esse viene erogato un «trattamento crudele, disumano o degradante» considerata sia la sovrappopolazione nelle celle, sia la mancanza di cibo e l’insufficiente accesso all’acqua, ai servizi igienici e alle cure mediche.

Il rapporto della Commissione, e le sue accuse, sono state contestate dall‘ambasciatore all’ONU del Burundi, Rénovat Tabu, che, al contrario ha sostenuto che il suo Paese è «stabile» e vi vigono la «pace e sicurezza». Per tale motivo, ha suggerito all’ONU di «porre fine al mandato della Commissione d’inchiesta».

Resta, tuttavia, il fatto che il Burundi – 12,2 milioni di abitanti – è uno dei Paesi più poveri al mondo, tanto da essere classificato al 185° posto tra i 189 paesi al mondo secondo l’indice di sviluppo umano calcolato dalla Banca Mondiale. Il 74,7% della popolazione vive nella povertà con un guadagno nazionale medio lordo pari a 704 dollari annui (circa 53 euro lordi al mese). Un Paese, dove, l’aspettativa di vita è appena di 57,9 anni e il 56% dei bambini tra i 6 mesi e i 5 anni d’età soffrono di malnutrizione cronica.

In questo contesto, è difficile pensare ad ulteriori tentativi di far rientrare nel Paese i 320.000 rifugiati che vivono nei Paesi limitrofi (Tanzania. Uganda, Congo e Ruanda).

 

(Foto di SOS Torture Burundi - rapporto 198)

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