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Buoni motivi per parlare ancora di Hendrix

Chi ha visto e ricorda le immagini relative alle più emblematiche, forse, e leggendarie esibizioni della Jimi Hendrix Experience, quella del festival di Monterey (1967) e quella di Woodstock (1969), ha un’idea abbastanza precisa delle emozioni che le storiche esibizioni hendrixiane possono ancora far provare, anche a distanza di molti anni dagli eventi, ad un appassionato di musica rock.

L’atmosfera e il pathos di Monterey sono stati resi molto bene da Riccardo Bertoncelli in un bel libro pubblicato più di trenta anni fa [1].  

"Bisogna arrivare a Monterey, all’estate di cui abbiamo già detto – sostiene Bertoncelli - Jimi Hendrix completamente senza problemi che sale sul palco alle otto di sera e alle nove già tutti si sono dimenticati la copertina del Sergeant Pepper’s – la radio del cervello personale manda in onda Foxy Lady e Manic Depression e gli occhi stentano a credere che davvero sia successo qualcosa. Terribile Jimi giovanissimo, serio e senza espressione – afferra la chitarra e gli fa perder conoscenza dopo un paio di “finte”, lancia sibili interminabili e trentacinque acuti nel giro di un minuto, prende il libro della musica alla rovescia, vive anzichè suonare…"

Oggi il fantasma di Jimi aleggia ancora nell’aria, come sempre.

Una ristampa discografica o anche un semplice riascolto di dischi come "Are you experienced?" ed "Electric Ladyland" possono fornire l’occasione per richiamare alla mente la figura e il talento artistico del chitarrista di Seattle. Peraltro, a voler essere pignoli, i motivi per continuare a parlare di Jimi non sono comunque mai mancati. L’influenza che egli ha avuto nel campo della musica giovanile è vivissima ancora oggi.

Are you experienced? (1967) è il primo album dell’ensemble anglo-americano The Jimi Hendrix Experience (Jimi Hendrix alla chitarra e voce, Mitch Mitchell, l’inglese del gruppo, alla batteria, e Noel Redding al basso elettrico). Si tratta di un disco eccellente, forse il migliore di Jimi ed è costituito, nella sua essenza, da rigurgiti acidi di beat, blues elettrico, psichedelia e anche altro.

Riascoltare a quarant’anni dalla morte del musicista afroamericano le sedici tracce di Electric Ladyland (1968), peraltro, può ancora essere un’esperienza mistica. E in effetti, qui, un Hendrix all’apice della sua esperienza artistica (Electric Ladyland è il terzo disco del chitarrista, quello che conduce il musicista afroamericano all’apoteosi) sembra dimostrare con la sua musica di avere veramente poco di fuggevole, di mondano e di umano, talmente alto e trascendentale risulta essere il livello qualitativo dei materiali registrati per questo disco. Parlare di Jimi senza retorica, vorrei, scrive ancora Bertoncelli [2]. Evitando anche i toni enfatici, si può senza retorica argomentare che due, fondamentalmente, sono i possibili approcci a questo capolavoro assoluto: Electric Ladyland può essere riconsiderato sotto un profilo storico retrospettivo statico oppure riascoltato con l’obiettivo di posizionarne nuovamente nel tempo i contenuti secondo un metodo, per così dire, diacronico.

Emerge con la più assoluta evidenza, innanzitutto, quanto questo disco sia figlio dei tempi in cui fu registrato: la musica di Hendrix però, è, rispetto a tutto ciò che poteva essere ascoltato alla fine degli anni Sessanta, innovativa e rivoluzionaria in tutti i suoi aspetti e fondata su una mistura sapiente quanto inedita, esplosiva e coinvolgente di pop, delta blues, rithm’n’blues, Jazz e psychedelic music, (tendenza musicale tanto in voga tra i gruppi della Bay area, in quegli anni). A conferire quel suono così originale e irrepetibile ai brani, inoltre, gli effetti ottenuti in sala di registrazione applicati in misura considerevole allo strumento di Jimi. Il talento hendrixiano risalta, così come l’esperienza degli altri musicisti che suonano nel disco (alle incisioni parteciparono, tra gli altri, Steve Winwood all’organo, Jack Casady al basso, Chris Wood al sassofono, Al Cooper alle tastiere e Buddy Miles, batterista scomparso ad inizio 2008).

Il richiamo all’impegno: Hendrix non rimane certo estraneo rispetto ai temi della protesta giovanile che contribuisce ad arroventare le estati americane alla fine dei Sessanta. Jimi è profondamente calato nella turbolenza e nelle passioni di quell’America flower power da una parte partecipando ai grandi raduni rock che contraddistinsero quell’epoca carica di entusiasmi (oltre che a Monterey e Woodstock Hendrix si esibì all’Isola di Wight) e dall’altra interpretando, ad esempio, una delle più dure e ironiche canzoni che il pop americano abbia mai prodotto contro l’establishment: All Along the Watchtower è canzone dal testo visionario e graffiante scritta da Bob Dylan, della quale, dicono, la versione hendrixiana ha immortalato la flessuosa struttura elettrica [3].

Non si può non insistere su quanto ancora oggi suoni attuale la musica di Jimi. Descritto come un personaggio violentemente trascendentale [4], Hendrix fu davvero all’avanguardia: lo fu sotto un profilo specificamente musicale ma anche come performer che si esprimeva attraverso il linguaggio del proprio corpo. Condivisibile l’analisi di Mauro Radice: "[…] egli è l’unico (e si saprà presto) che dice con la musica, sia con la musica pura che con i gesti che sono i suoi, la rabbia e l’amore di chi lo ascolta. Rabbia e amore sono le due componenti, e lo saranno fino alla fine" [5] .

L’influenza avuta da Hendrix su schiere di chitarristi ancora in attività o affermatisi più di recente è enorme; ricordo, tra tutti, Robin Trower e il compianto Steve Ray Vaughan; qualcuno certamente ricorderà, in Italia, Bamby Fossati e Tolo Marton, seguaci hendrixiani protagonisti di certo pop italiano degli anni Settanta.

Certo anche oggi ci viene dato di ascoltare ottima musica e di provare, mentre lo facciamo, emozioni fantastiche. Ma nella musica attuale il sacro aroma delle radici del rock che veniva sprigionato dalle note di Jimi si sente di meno, quella cert’aura magica non si avverte più… 

 

[1] Riccardo Bertoncelli, Un sogno americano, Roma 1977, p.85

[2] Riccardo Bertoncelli, op.cit., pp.85-86

[3] Paolo Carù, in una recensione alla ristampa del disco Electric Ladyland, in Buscadero, anno XXIX, n°309, Febbraio 2009, p.103

[4] Mauro Radice, Enciclopedia Pop, Milano 1976, p.80

[5] Ibidem

 

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