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Buon Ramadan

Subhan Allah”, ovvero “gloria ad Allah”: da qualche settimana è questa la scritta che campeggia sulle fiancate dei bus di Londra e di altre quattro città britanniche. Si tratta di una campagna di fundraising della Islamic Relief, organizzazione umanitaria guidata dagli “eterni valori e insegnamenti del Corano”.

Come già successo negli anni passati, la campagna ha ricevuto alcune deboli critiche da parte dei cristiani più conservatori, in particolare gli anglicani, mentre, coerentemente con i suoi principi, a difesa della campagna si è schierata la National Secular Society, storica organizzazione che si batte per la difesa della laicità in Gran Bretagna.

L’impressione generale è che l’impatto mediatico sia stato molto debole. Vero è che, da un punto di vista meramente comunicativo, il lessico della campagna non è forse il migliore: la Islamic Relief invita infatti i cittadini londinesi a digiunare per “gather the rewards of Ramadan” — alla lettera, per “raccogliere le ricompense del Ramadan” — o esorta a un più generico “believe” seguito dall’hashtag #Ramadan2018. Insomma, non proprio una scelta comunicativa convincente in una nazione dove nemmeno il 5% della popolazione è musulmana, a fronte di un 53% di non-credenti.

Al di là di questi dati, è per noi interessante immaginare cosa sarebbe successo se le stesse scritte fossero apparse sui bus di qualche città italiana. Molto probabilmente si sarebbe alzato il solito polverone mediatico, con identaristi, nazionalisti e xenofobi pronti a gridare allo scandalo, alla necessità di fermare l’avanzata islamica in Italia, all’urgenza di contrastare i “bastardi islamici”, così come definiti dall’ex direttore di Libero, Maurizio Belpietro.

Da un punto di vista laico e liberale quella campagna non dovrebbe destare nessuno scandalo. Non dovrebbe — per dirla diversamente — farci né caldo né freddo. La domanda giusta da porsi è infatti la seguente: nell’esercizio della loro religione, i credenti musulmani che digiunano invadono forse la libertà altrui? No, ed hanno quindi il loro “sacrosanto” diritto di digiunare comedove quanto a lungo ritengano opportuno.

Vale “anche” per loro, infatti, l’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo — articolo che riconosce ad ogni individuo “il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” inclusa “la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.”

Stando così le cose, è giusto riconoscere e difendere, in Gran Bretagna come in Italia, il diritto dei cittadini musulmani a praticare — ma anche a promuovere entro certi limiti — la propria fede e i propri riti. Altrettanto giusto e legittimo, però, è la critica di chi mette in risalto il paradosso cogente e manifesto dell’Islam: minoranza difesa (a ragione) dalle democrazie liberali europee, a volte fino quasi al parossismo, maggioranza intollerante, oppressiva e totalitaria nelle teocrazie islamiche in Medio Oriente.

Troppo spesso infatti le critiche nei confronti dell’Islam (così come in generale quelle verso ogni religione) vengono scambiate a torto per razzismo e xenofobia. In realtà, si tratta di pure e semplici constatazioni di fatto. È un fatto, ad esempio, che dei 12 paesi che puniscono l’apostasia con la pena di morte, 11 siano a maggioranza musulmana — la Nigeria, invece, è spaccata in due tra cristiani e musulmani. È un fatto che la criminalizzazione della blasfemia e dell’omosessualità siano diffuse in tutte le teocrazie musulmane. È un fatto poi che nei paesi a maggioranza musulmana i diritti delle donne siano calpestati, poiché, secondo lo stesso Islam, la donna è inferiore all’uomo — è stato anche messo per iscritto nella cosiddetta Dichiarazione Islamica Universale dei Diritti Umani, meglio conosciuta come “Dichiarazione del Cairo”, sottoscritta da 56 paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica.

Infine, per ritornare in tema, è un fatto che l’infrazione del Ramadan in determinati paesi sia considerato Ḥarām e comporti pene severe, così come successo l’anno scorso in Tunisia, dove quattro ragazzi sono stati arrestati con l’accusa di “oltraggio pubblico al pudore”.

Ad organizzazioni come la Islamic Relief (ma anche a Stati sovrani come il Vaticano) bisogna dunque far notare, con la giusta intransigenza, che il diritto alla libertà di religione include quello alla libertà dalla religione, e che non si può essere al tempo stesso paladini dell’uno e persecutori dell’altro.

Buon Ramadan dunque a chi lo pratica e ci crede. Ma, al tempo stesso, lunga vita alla libertà di chi vorrebbe scegliere diversamente e invece non può.

Giovanni Gaetani

Questo articolo è stato pubblicato qui

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