Associazione bancaria italiana | Conoscere per deliberare. O commentare
Il presidente del sindacato dei banchieri italiani ha nostalgia della Bankitalia che fu e vorrebbe riformare il MES. Ma prima dovrebbe studiarne bene il trattato istitutivo
Avvenire ha intervistato il presidente dell’Associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli. Liberale “classico”, come si direbbe oggi, o forse di altri tempi, decisamente andati. L’intervista verte sulla situazione della politica monetaria, dove Patuelli si è posizionato tra i critici delle scelte della Banca centrale europea sui tassi. O meglio, sul percorso spazio-temporale della stretta monetaria.
Certo, il presidente del sindacato dei banchieri italiani, anche per tratto personale, non ha la sguaiataggine muscolare che caratterizza altri personaggi della politica italiana; come per molti il suo timore è che, stringendo troppo, si arrivi alla recessione. Esito, peraltro, che i banchieri centrali non si sentono più di escludere, pur di ricostituire la propria credibilità dopo la dormita del 2021 sull’inflazione “transitoria”.
BANCHIERI CENTRALI CACOFONICI
Patuelli da giorni afferma che, “se cambia il contesto, com’è cambiato fortemente e come sta evolvendo, occorrono nuove ed innovative riflessioni”. Credo che questa sia anche la linea-guida delle banche centrali, ma posso sbagliarmi. E comunque diciamo che, anche se i prezzi di energia e alimentari sono in recente calo, resta da valutare quanto tale calo sia frutto di condizioni volatili e non di cambiamenti strutturali. Peraltro, l’inflazione sottostante, o “di fondo”, quella al netto di alimentari freschi ed energia, tende ad avere maggiore inerzia rispetto a quella generale. E poi c’è un mercato del lavoro ancora molto tonico, malgrado tutto.
Tutto ciò premesso, in Italia pare si lamenti soprattutto una certa cacofonia da parte dei banchieri centrali, e non solo della presidente Christine Lagarde. Problema analogo a quello che si riscontra negli Stati Uniti, dove i governatori della Federal Reserve passano il tempo a esternare, anche più volte al giorno. Poi arriva il cosiddetto quiet period, quello del silenzio dei giorni immediatamente precedenti la seduta che deve decidere i tassi, e ci rilassiamo tutti.
Cosa vorrebbe, quindi, Patuelli, dalla comunicazione Bce?
Pongo una questione di metodo. Ricordo con apprezzamento quello che aveva la Banca d’Italia quando aveva la responsabilità integrale anche sul tasso di sconto: faceva solo il comunicato stampa. Le sue decisioni, come oggi per la Bce, erano come le sentenze della Cassazione: inappellabili e che parlano da sole, non è che dopo arriva il primo presidente della Cassazione e fa una conferenza stampa per spiegare.
Ah, i bei tempi andati della Banca d’Italia “e più non dimandate“! Patuelli li ricorda ancora con nostalgia, evidentemente. Inoltre, par di capire che egli lamenti non tanto il frastuono dei banchieri centrali prima del meeting di politica monetaria, ma proprio la conferenza stampa successiva al medesimo, quella in cui il primus/prima inter pares della Bce spiega cosa è stato deciso, il percorso che ha portato a quella decisione e i possibili sviluppi.
Forse tra un comunicato stampa e un eccesso di esegesi da parte di una persona che non è banchiere centrale per percorso professionale (Lagarde), servirebbe una soluzione intermedia. Tanto più che è lo stesso Patuelli, così nostalgico dei tempi “assolutisti” della Banca d’Italia, a elogiare la Bce per la sua “forte trasparenza nel processo decisionale, tanto che pubblica le minute dei dibattiti del suo consiglio”. Lo fanno praticamente tutte le banche centrali, comunque.
IL MES, QUESTO SCONOSCIUTO
Dopo le lamentazioni d’ordinanza circa il fatto che la Bce ha ritirato il regalo fatto alle banche col TLTRO (prestiti a tasso negativo che finivano parcheggiati, a tasso positivo e oggi crescente, sui conti degli istituti di credito presso la banca centrale), il cui rimborso si tradurrà in aumento del costo della raccolta (credo si chiami rischio d’impresa ma posso sbagliarmi), Patuelli si cimenta con la vexata quaestio (ma solo in Italia) del MES, il cosiddetto fondo salvastati. Lei vorrebbe cambiarlo, come chiede il governo Meloni?
E perché no? Quello che manca oggi all’Europa è un inquadramento costituzionale, e questo pesa. È fatta di una somma di Trattati che non hanno una sintesi e non sono definitivi come le tavole di Mosè. Per di più il Mes ha un vertice monocratico, guidato ora da un direttore generale che non è più tedesco, ma è il lussemburghese Pierre Gramegna.
Andiamo con ordine. La “somma dei trattati” è funzionale alla governance europea; se non vanno bene, si cambiano o si rivedono. Come si vorrebbe fare col MES, appunto. Ma, sin quando vigono, sono di fatto “tavole di Mosè”. Senza scordare che la funzione principale del MES non è quella di canalizzare sussidi agli italiani “perché loro valgono”, ma perseguire la stabilità assistendo i paesi durante crisi di debito sovrano. In un modo o nell’altro, quella funzione va codificata.
Patuelli vorrebbe per l’Europa “una Costituzione che definisca diritti e doveri di ciascuno ed eviti i paralizzanti diritti di veto che oggi sussistono”. Vaste programme. E se poi si dovesse decidere a maggioranza qualificata su materie dove gli italiani si trovassero in svantaggio competitivo, che direbbe Patuelli e non solo lui? Forse che “questa Europa è intrinsecamente autoritaria e antinazionale”?
C’è poi il riferimento alla presunta monocraticità del MES. Se solo fosse vera. Eppure basterebbe leggere il trattato che lo istituisce e cosa fanno e come decidono i suoi organi di governance. C’è il Board of Governors (consiglio dei governatori), dove siedono i ministri delle Finanze dei 19 paesi soci del MES (saranno 20 con la Croazia nell’euro). Per l’Italia, oggi, c’è Giancarlo Giorgetti. Il Board of Governors è la massima istanza decisionale del MES, si riunisce almeno una volta l’anno e verbalizza le riunioni. È guidato dal presidente dell’Eurogruppo, oggi l’irlandese Paschal Donohoe. Il Consiglio dei governatori delibera “di comune accordo”, cioè all’unanimità, tra le altre cose, l’assistenza finanziaria agli stati che la richiedono.
Poi c’è il Board of Directors (consiglio di amministrazione), composto dai “tecnici” dei 19 paesi, e che assume le decisioni che gli spettano in base a Trattati e statuto e quelle che gli vengono delegate dal Board of Governors. Per l’Italia, siede nel BoD il direttore generale del Tesoro, oggi Alessandro Rivera.
Il Board of Directors è presieduto da un managing director (direttore generale), oggi il lussemburghese Pierre Gramegna. Leggiamo: “con assistenza del management board, il managing director è responsabile degli affari correnti, sotto la direzione del Board of Directors”. Il Board of Directors delibera, ove diversamente previsto, a maggioranza qualificata. In pratica, una continua interazione tra la sfera politica e quella tecnocratica. Proviamo con un suggestivo “disegnino”.
Tutto ciò premesso, qualcuno mi spiegherebbe il senso del commento di Patuelli sul “vertice monocratico” che semplicemente non è tale? O forse Patuelli, fedele alle proprie convinzioni “maggioritarie”, esprime contrarietà al fatto che il consiglio dei governatori del MES decida l’assistenza all’unanimità?
Ora, io comprendo che le associazioni di categoria, i leggendari “corpi intermedi”, abbiano necessità di non irritare il governo pro tempore e quindi ogni volta cerchino di barcamenarsi ed evitare rotte di collisione sulle questioni care all’esecutivo.
Questa acquiescenza “collaborazione istituzionale” dovrebbe comunque trovare un preciso limite nell’immortale precetto enunciato dal nume tutelare di Patuelli (e anche mio, si parva licet), Luigi Einaudi: “conoscere per deliberare”. Ma anche solo per commentare, mi vien fatto di dire. Anche perché avere dei corpi intermedi consapevoli di come funziona il mondo può aiutare a far progredire il paese “evitando le buche più dure”, come avrebbe detto il Poeta di Poggio Bustone. Per tutto il resto, c’è il vittimismo sovrano.
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