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Alcune considerazioni da ‘Scritture a perdere’ di Giulio Ferroni

Giulio Ferroni termina il suo saggio Scritture a perdere – la letteratura negli anni zero’ (Laterza, 2010, collana ‘Il nocciolo’) con una domanda:
 
“Ricerca dell’essenziale, impegno nell’ascolto del mondo, cura per il suo destino, disposizione a dislocare l’invenzione e a toccare il cuore del linguaggio. Ci saranno nel nostro paese scrittori all’altezza di questa necessità?
 
Naturalmente per arrivare a questa conclusione e capirla fino in fondo è necessario leggere il saggio, peraltro scritto in modo scorrevole, semplice nello stile quanto nelle teorie enunciate, aneddoti raccontati, analisi e logiche riproposte.
 
Ciò premesso, la domanda finale sbaglia angolazione, a mio avviso.
È necessario però fare alcuni passi indietro.
 
Ferroni enuncia con dovizia di dettagli e spiegazioni che dalla letteratura spaziano (o è forse più vero il contrario, da un ‘altro’ fatto di medialità, cronaca, realtà italiana attuale vissuta tra reality, televisione, divulgazioni massimizzate con l’avvento del web), enuncia insomma la teoria che si potrebbe definire della ‘spettacolarizzazione’ come valore aggiunto non optional ma indispensabile per lo scrittore italiano che oggi si vuol vedere pubblicato, e chiamato ai festival, tra i talk show e ogni maglia divulgativa di massa:
 
“Lo scrittore è qualcuno che <appare>, e il libro deve prima di tutto sapere apparire; in piccolo la società letteraria finisce per riprodurre gli stessi meccanismi in atto nel mondo della politica: anche in essa, ormai, con la messa in quarantena della critica, viene messo in primo piano chi ha più audience e vende di più.” (pag.109)
 
“In piccolo” scrive Ferroni, riferendosi a una società letteraria che però convoglia un flusso ininterrotto di mestieri, poteri e circuiti:
 
“I libri degli scrittori di mestiere, buoni o mediocri che siano, vengono subissati dai linguaggi mediatici, di giornalisti, di politici, di conduttori televisivi, di comici, di cantanti, di maître a penser, che non solo pubblicano interviste, saggi, cronache, autobiografie, considerazioni sull’attualità, ma si mettono in proprio a fare narrativa, talvolta con sorprendente alacrità. È una sorta di circolo chiuso da cui scaturiscono ripetutamente grandi scrittori, che permette di incoronare libri mediocri…” (pag.51)
 
Non è così ‘piccola’, insomma, questa società letteraria fatta di autori che comunque, in ogni modo o maniera li si voglia radiografare, hanno il necessario ‘surplus’(a parte il manoscritto da pubblicare, evidentemente, o un accordo per la sua stesura a seconda delle richieste ed esigenze dirette della casa editrice).
 
Ferroni, come accenno in precedenza, ragiona partendo dall’attuale società italiana, una sorta di breve antropologia pratica che si dipana tra fiere, eventi in piazza, talk show, dibattiti, mass medialità che affonda nella cronaca più pubblica dimenticando i numerosi ma piccoli casi meno diffusi dalle principali testate nazionali. Ed è un excursus fulminante quanto efficace, quello di Ferroni:
 
“L’intreccio tra eccesso della comunicazione, azione invadente della spettacolarità vuota e degradata, costipazione dell’ambiente e del linguaggio non suscita una vera opposizione pubblica, entro l’esercizio della cultura e nell’esperienza della vita quotidiana […] L’invasione dello spettacolo conduce ad una concentrazione assoluta sul proprio punto di osservazione: si dà come una rifrazione di effetti tra le apparenze che si succedono senza fine e la mente di chi è da essere catturato, che ad esse affida la propria esistenza.” (pag.19-20)
 
Invasione di spettacolarità, dunque, di protagonismo o “personaggite” come si è già iniziato a enunciare in alcuni modesti contesti del web.
 
La visione dura di Ferroni trova però alcune ‘vie di fuga’ in questo contesto letterario italiano: i racconti (o comunque le narrazioni brevi) e modalità narrative che possono sfociare in romanzi ma che restano forme ibride che si avvalgono di diversi piani e livelli costruttivi e che sempre più di frequente si fondano sulla c.d. ‘autofiction’ come macro dinamica da cui elaborare poi scritture identitarie autonome e diverse.
Ma c’è spazio anche per i best seller, in questo saggio, e per la bestia immortale del ‘noir’ che duplica se stesso incapace di dire altro.
 
Peccato manchino considerazioni sostanziali sugli stili, sui registri che invece la narrativa italiana recente mi sembra stia contrapponendo con sempre maggiore forza (indipendentemente da fazione pubblicante, riscontri di vendita e curatori). Peccato perché anche sulla lingua si gioca una partita che ha molto a che fare con i percorsi degli autori italiani quanto meno di talune generazioni.
Esattamente come mancano in questo saggio, sempre entro il circo dello Spettacolo, considerazioni sulle battaglie continue per vedersi riconosciuta un’identità - quella di Scrittore – dipendente da variabili e riscontri altrui pubblici ben delineati ma contaminati da altre divulgazioni parallele (pubblicazione di articoli su quotidiani nazionali, interviste su portali noti, partecipazioni in trasmissioni tv rinomate e dagli ascolti importanti, presenzialismi a festival ed eventi possibilmente di portata nazionale, candidatura a premi letterari storicamente ambiti).
 
Le analisi di Ferroni, in ogni caso, lo portano a teorizzare:
 
“Scritture a perdere, queste, che, per i loro caratteri e per il loro stesso successo, ci portano lontano da quella ricerca dell’essenziale che sola può garantire una pur problematica sopravvivenza della letteratura.” (pag.50)
 
Non mi trova del tutto d’accordo, questa sintetizzazione (presa per ciò che è, evidentemente, nelle pagine precedenti Ferroni si è occupato dei vincitori dei recenti premi Strega e Campiello, per contestualizzare l’affermazione).
Se per Ferroni questa ‘ricerca dell’essenziale’ si concretizza in quelle affermazioni in chiusura (citate all’inizio di questo pezzo): “impegno nell’ascolto del mondo, cura per il suo destino, disposizione a dislocare l’invenzione e a toccare il cuore del linguaggio” (che a mio avviso si possono tradurre liberamente in un mix variabile tra il raccontare una storia senza sottovalutarne la trama, dire qualcosa, lavorare duramente con la lingua oltre gli schemi standard); se tutto questo è correttamente interpretato allora è necessario coniugarlo con l’ampia trattazione della realtà ‘di mercato e di società’ in cui i libri nascono e si muovo (trattazione peraltro approfondita a più riprese in questo saggio).
 
Ecco allora che la domanda finale posta da Ferroni, non mi sembra la più centrata.
Supponiamo, insomma, che gli scrittori ci siano. E per scrittori intendo persone evidentemente non riconosciute nell’attuale mercato editoriale italiano come tali o semi sconosciuti comunque alla medio-grande distribuzione. Supponiamo che in Italia, tra Nord e Sud e Centro, tra generazioni diverse e formazioni variabili, ci siano persone in grado di scrivere oltre ciò che attualmente si trova tra classifiche e tendenze figlie di mode e personaggiti dilaganti.
 
Ci saranno nel nostro paese editori disposti a pubblicarli indipendentemente dai surplus?

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