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Al ponte di Albersan, sul Canal Bianco

Fine giugno del 1901. Al ponte di Albersan, sul Canal Bianco, tre chilometri da Berra Ferrarese, c’è la bonifica delle terre alla destra del Po: 22mila ettari e pane assicurato, se la terra non fosse in mano alla «Banca di Torino». E quando mai dove trovi una banca c’è pane assicurato per la povera gente?

Nelle paludi muoiono di fatica contadini che vengono dalle province di Rovigo e Ferrara, romagnoli del Polesine, divisi dal fiume ma uniti dalla fede socialista e da sentimenti di solidarietà. Gente che sciopera solo se non trova alternativa alla fame. Un contadino mangia solo se lavora e a Berra si sciopera perché, allora come oggi, il lavoro si paga con salari da fame.

Alla richiesta di qualche centesimo in più, la Società delle Bonifiche ferraresi, sostenuta da capitali bancari, non solo ha risposto picche, ma ha messo a frutto persino la fame, creata apposta dai padroni, e ha reclutato crumiri in Piemonte. Fame contro fame, diritti contro disperazione. E’ il solito gioco e il 1901 somiglia maledettamente al 2015, coi padroni del vapore che prima producono la crisi e poi la usano come un’arma contro i diritti e la povera gente. Un gioco da ragazzi: «prendere o lasciare». E se il ricatto non basta, c’è lo Stato, pronto a coprire le spalle agli sfruttatori, e c’è la “legalità”, la scienza che i padroni usano con sapiente ferocia per strangolare nei tribunali la giustizia sociale.

Appena i contadini scendono in sciopero, la proprietà invoca l’intervento delle Autorità. Poche ore, poi attorno al ponte brulicano soldati in tenuta da campagna. Anche per questo i lavoratori pagano: per garantire un lavoro sicuro e il futuro alla gente in divisa. La salute degli sfruttatori si chiama repressione. La truppa è in trincea. In testa ai fanti, all’imbocco del ponte, c’è Lionello Di Benedetto, un tenente napoletano, e di fronte, sulla destra del canale, luccicano altri fucili.

Giunti in corteo dalla strada di Berra, gli scioperanti provano ad attraversare il ponte. La tromba, tre squilli e un brivido serpeggia tra i lavoratori: quando non porta pallottole, la tromba annuncia sciabolate e botte. I contadini mostrano fazzoletti bianchi in segno di pace e Calisto Desvò, presidente della Lega di Villanova Marchesana, si toglie il cappello e si avvia verso l’ufficiale. I figli hanno fame. L’ultimo sguardo ai compagni: fazzoletti bianchi, bandiere rosse, volti segnati da stenti e fatica, ma tanta dignità. E’ il secolo dei lavoratori, pensa, mentre cammina dopo gli squilli minacciosi e al tenente: «Domando la parola!». Risponde la pistola: sei colpi consecutivi in petto e in testa. Così finiscono sciopero e vita del socialista Desvò. Così, col sangue versato, i lavoratori conquistano i diritti che Renzi oggi cancella.
La stampa, persino quella padronale (a quei tempi c’erano anche giornali operai) narra i particolari. Dietro la truppa, il proprietario era una furia, chiedeva di far fuoco e indicava gli scioperanti. Dopo le revolverate erano giunte le fucilate. «Fuoco!» s’era sentito urlare. « Per questa gente non c’è altro che il piombo! Fuoco!».

Mentre i contadini inermi si davano alla fuga terrorizzati, centrata alla schiena e alla nuca – una palla a bruciapelo le portò via metà della testa – se ne andò per sempre Cesira Nicchio, lasciando due figli. Attorno a lei quattro compagni rantolanti – Ferruccio Fusetti, Albino Gardellini, Sante Livieri e Augusto Nanetti – e decine di feriti in fuga disperata. S’era udita però, rabbiosa, in punto di morte, una voce urlare per l’ultima volta la sua fede: «Coraggio compagni! Viva il socialismo!». Non sapremo mai se il cronista ci mise del suo, ma del proprietario si narra l’estrema provocazione: «I morti sono pochi; ci vogliono ancora pallottole per i capi!».

Chi crede che l’Italia di Bava-Beccaris, col cannone in batteria che spara sui manifestanti inermi, sia un «incidente di percorso», non conosce la storia e non capisce che la scuola e l’università sono state assalite dai governi del secolo nuovo, perché non educassero una gioventù consapevole dei propri diritti e del sangue che sono costati. Qui da noi l’«incidente di percorso» non sono stati Crispi, Pelloux, Mussolini e l’omicidio di Pino Pinelli. Questa è la regola. Per capirlo, basta contare i giovani assassinati in guerre volute solo dai padroni, mettere assieme la gente ammazzata nelle piazze, contare i morti volontariamente uccisi sul lavoro, i suicidi per disperazione, il massacro sociale di Monti, Fornero e Renzi: l’unico, autentico «incidente di percorso» qui da noi è stato quel tanto di democrazia consentito talora dal saggio di profitto e dal bisogno di pace sociale. Quella democrazia di cui Renzi si riempie ogni giorno la bocca e intanto la cancella.
Non c’è stato nessun diritto ottenuto per grazia ricevuta. I lavoratori li hanno conquistati sempre e solo pagandoli col sangue e l’unica primavera della legalità nella nostra storia è stata quella imposta ai padroni tra il 1943 e il 1945, ai tempi della Resistenza. E’ questa la lezione terribile ma istruttiva che insegna la storia ai ceti subalterni: la dignità e i diritti si conquistano col sangue e col sangue si difendono. Ecco perché la scuola non farà più il suo mestiere.
Il resto sono chiacchiere.

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