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Aborto, infanticidio e la strana inammissibilità della nascita umana

Ci sono frasi che suonano strane. Altre stonate. Altre ancora sembrano decisamente inquietanti.

Così definirei il comunicato stampa con cui il Presidente della Consulta di Bioetica, Maurizio Mori, è intervenuto a difesa dell’ipotesi “aborto post-natale”, proposta da Alberto Giubilini e Francesca Minerva (nelle foto), membri del direttivo di quella stessa Consulta. Ipotesi peraltro non nuova né riproposta - pare - in termini originali.

Dopo aver deprecato giustamente le numerose minacce di morte inviate ai due ricercatori italiani ed al direttore del Journal of Medical Ethics, responsabile della pubblicazione, il presidente del noto “laboratorio” del pensiero laico in materia di bioetica non ha potuto fare a meno di mostrare le sue simpatie per l’azzardata tesi che ha sollevato scalpore, ma anche poche reazioni nel mondo dell’informazione (con qualche eccezione, come la combattiva Rita Guma che nel suo blog su Il Fatto Quotidiano si è accapigliata proprio con la Minerva).

Equiparare feto a neonato, legittimando così, insieme all’aborto, anche l’infanticidio, non è tesi, afferma Mori, "di per sé tanto assurda e balzana da essere scartata a priori solo perché scuote sentimenti profondi o tocca corde molto sensibili".

Questa frase induce a pensare che in ballo ci sia una questione di "sentimenti". Al contrario, si direbbe piuttosto che ci si trovi davanti ad uno spartiacque concettuale fondamentale.

A costo di ripetersi, ricapitoliamo la questione, che è più complessa di quello che sembra. Dire che feto e neonato sono egualmente “esseri umani” - come affermano i ricercatori contestati - significa affermare che il feto è un “essere”, non un “essere potenziale”. Ma se è un "essere", ha ragione la Chiesa, perché sopprimere un essere umano, ad esempio con un aborto, è definibile solo come omicidio; non riesco ad immaginare altra definizione che questa.

Quindi i due ricercatori, e con loro il presidente della Consulta di Bioetica - che non ha preso le distanze da questa tesi - in realtà ci dicono che abortire equivale ad uccidere. Infatti Julian Savulescu, direttore del Journal of Medical Ethics trae conclusioni che ci sembrano conseguenti: “Naturalmente molta gente argomenterà che, su queste basi, l’aborto potrebbe essere nuovamente criminalizzato” (Of course, many people will argue that on this basis abortion should be recriminalised).

E, si potrebbe aggiungere, potranno essere di nuovo criminalizzate tutte quelle donne che hanno deciso di abortire, cioè di sospendere un processo di puro e semplice sviluppo biologico interno al loro corpo, per motivi che avevano tutti i diritti di valutare liberamente.

La differenza tra la bioetica laica e la bioetica cattolica sembra semplicemente evaporata come una goccia d'acqua su un fornello acceso. Si torna a quello che dice l'attuale Papa: “L’amore di Dio non fa differenza fra il neoconcepito ancora nel grembo di sua madre e il bambino o il giovane o l’uomo maturo o l’anziano”. Quindi non essendo mai nati, saremmo tutti feti, dipendenti da un cordone ombelicale mai reciso. Cioè tutti ridotti a materiale biologico, vivo solo in potenza. In Vaticano probabilmente hanno brindato a champagne dal momento che si aprono le porte, con queste assurde connivenze, proprio al pensiero cattolico più intransigente in tema abortivo (e non solo).

Poi ci viene detto che feto e neonato, entrambi “esseri umani”, non sono però “persone” fino a che non diventano capaci di elaborare una propria progettualità di vita. E fino a che non diventano “persone” restano “non-persone” a cui non si può riconoscere il diritto soggettivo alla vita.

Quindi qualsiasi infante, per qualsiasi motivo, può essere soppresso; non ha alcun diritto alla vita se questa sua vita “potenziale” confligge con quella - reale - di un adulto, già maturato allo stadio di “persona”. Può essere soppresso da una donna turbata dal dare il figlio in adozione e domani potrebbe essere eticamente concepibile ucciderlo per esigenze di carriera professionale o per evitare di dover cambiare casa o per non indebitarsi o chissà che altro.

Con questa mentalità appare evidente che la definizione di “essere umano” - così generosamente riconosciuta al feto - contiene un aggettivo, “umano”, che viene immediatamente smentito. Se un neonato può essere soppresso in tutta tranquillità è evidente che la sua essenza non è considerata umana; il bambino è equiparato ad un pollo, ad un vitello, a un tonno.

Spostare il concetto di "potenziale" dal feto nell'utero - dove è attinente alla realtà - al bambino nato, ma non dotato ancora di pensiero razionale - dove invece è una evidente negazione della vita affettiva e psichica del bambino, porta a queste conseguenze.

Una volta stabilito apioristicamente che il “genere umano” si caratterizza per avere consapevolezza cosciente, tutto ciò che non attiene o non viene riconosciuto attinente a quella sfera è evidentemente de-genere: è fuori dal genere umano. Il neonato quindi si può sopprimere semplicemente perché è un degenerato. La sua diventa Leben unwertes Leben, “vita indegna di vita”, se gli si nega dignità di persona umana. Il diverso dall'essere adulto razionale può essere eliminato.

Sembra di trovarsi di fronte abbastanza chiaramente ad una mentalità molto vicina al pensiero nazista, che infatti eliminava ogni “degenere”; in particolare quando le necessità di ricerca medica (che sono indubbiamente necessità di “persone”) si risolvevano facendo esperimenti letali sulle “non-persone” (ad esempio sui bambini di etnia rom o ebraica che erano notoriamente non-persone per definizione). Come ha sostenuto Giorgio Israel “sebbene gli stermini razziali non siano un derivato diretto dell’eugenetica, quest’ultima ha contribuito a preparare il terreno ideologico e l’insensibilità morale necessari a renderli accettabili e persino giustificabili”.

La definizione di "non-persona" (potenziale o meno che sia), riferita ad un essere umano vivente, può portare molto lontano quindi, verso vasti campi ghiacciati sperduti al di là dei confini dell'umanità.

In conclusione ci si sente piuttosto stritolati dalle due concettualizzazioni opposte.
Quella cattolica che afferma esserci vita umana fin dal momento in cui un ovocita viene fecondato (ma altre religioni - pur sostenendo l’esistenza di un’anima immortale che, prima o poi, scende nel corpo rendendolo ‘umano’ - non condividono questa impostazione radicale). E quella razionale che, individuando l’essenza compiutamente umana solo nello stato dell’adulto consapevole di sé, scivola inesorabilmente verso il nazismo più conclamato.

Ma sono realmente concettualizzazioni opposte ?

Se si nega che alla nascita succeda qualcosa che trasforma un essere potenziale in un essere attuale e che questo qualcosa è l'attivazione della realtà psichica, inesistente nell'utero, è conseguente che si legittima un pensiero delirante: o si considera vivo un morto, come nel caso della Englaro, la cui vita psichica era terminata, o si ritiene non-vivo (e perciò sopprimibile) un neonato.

Che sia criminalizzato l'aborto o legittimato l'infanticidio alla fine sono le due facce della stessa medaglia, che di volta in volta faranno esultare o scandalizzare i cattolici o i laici razionalisti che restano però intimamente legati dalla comune inammissibilità concettuale della nascita umana. Legame intimo che fa, al di là delle fumosità più o meno astruse, la base della cultura dominante nella civiltà occidentale: cristianesimo e implicito nazismo del pensiero razionale.

Il pensiero cristiano che nega la differenza tra feto e neonato costituisce il nucleo latente del pensiero filosofico per il quale ciò che distingue l'umano dall'animale è la razionalità dell'età adulta.

Ma Mori ci dice che rifiutare tutto questo è solo una banale melassa sentimentalistica che si opporrebbe ad una seria e ponderata libertà di ricerca "scientifica".

Una definizione inquietante; non si direbbe proprio un problema di “sentimenti”. Mi pare che si tratti essenzialmente dell'incapacità di prendere in considerazione una impostazione di bioetica laica che si opponga ai deliri di quella religiosa senza cadere nel baratro di teorizzazioni virtualmente sterminatorie, esponendo il pensiero laico all’accusa fatale di essere fondamentalmente omicida; accusa che proviene - ironia della sorte - proprio da quel mondo cattolico la cui dottrina (Extra Ecclesiam nulla salus) per venti secoli si è basata sul non riconoscere dignità umana al diverso da sé (comportandosi di conseguenza, con allegra spensieratezza, verso ebrei, eretici, donne, indios eccetera; cioè milioni di morti).

Taglia la testa al toro, a mio parere, e lo fa in modo molto articolato ed esaustivo, un eccellente articolo pubblicato proprio oggi sul settimanale left a firma di Gabriella Gatti, dell'Università di Siena, neonatologa e psicoterapeuta (raro ed interessante connubio fra due discipline diverse, che sembra particolarmente adatto a sgombrare il campo da tutti questi squinternati “equivoci” in merito alla realtà della natura umana). Se ne consiglia la lettura.

Il riferimento esplicito, casomai ci fossero dubbi, è alla teoria fagioliana della nascita umana.

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