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Abolire il carcere

Stefano Anastasia, ricercatore universitario, con Luigi Manconi, Valentina Calderone e Federica Resta, ha scritto recentemente un libro dal titolo emblematico “Abolire il carcere”.

Una proposta provocatoria, che gli autori definiscono ragionevole.

Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, ha rilasciato un’intervista all'huffington post relativamente ai contenuti di questo libro.

Anastasia sostiene innanzitutto che “nel 1978 il Parlamento italiano votò la legge per la soppressione dei manicomi. Ora tocca alle carceri che, così come sono strutturate, servono a riprodurre crimini e criminali, non proteggono i cittadini e non aiutano i detenuti a rieducarsi. Il carcere è un’istituzione storica, a cui la Costituzione, che parla solo di pene e mai di carcere, non ci obbliga”.

E poi aggiunge “molti dei Paesi europei più avanzati stanno investendo sulle alternative al carcere: solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82%.

Non solo. Nel nostro Paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere non serve a nessuno.

I numeri lo dicono in modo chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. La detenzione in strutture fatiscenti e sovraffollate deve essere abolita e sostituita da misure alternative, efficaci ed economiche”.

E ancora: “proponiamo, ovvio l’abolizione del carcere, ma non delle pene, che, però, devono essere alternative.

Quando la Corte federale della California ha intimato a Schwarzenegger di ridurre di un terzo la popolazione detenuta, ha spiegato come con la metà della spesa si sarebbero potuti approntare i migliori programmi di sostegno al reinserimento sociale dei 50.000 detenuti da liberare”.

Alla domanda sul perché invece di abolire il carcere non lo si umanizza, Anastasia risponde “l’impegno per l’umanizzazione del carcere è nato con la sua stessa invenzione, ma non ha mai potuto fare di meglio che modificare leggermente condizioni di detenzione sempre e comunque degradanti rispetto alla concezione corrente della dignità umana.

Bisogna prendere atto di due cose: il carcere – salvo casi eccezionali – non rieduca, e poi, costituisce strutturalmente un luogo di degradazione delle persone”.

E alla domanda “Ma come spiegare al cittadino perbene, che non ha mai commesso alcun reato, che il carcere deve essere abolito?”, Anastasia risponde così:

“Sono anni, decenni, che ci battiamo per il rispetto e la promozione dei diritti dei detenuti, ma con questo libro abbiamo voluto parlare a chi è dall’altra parte per spiegare che il carcere non produce più sicurezza. Al contrario, alimenta rabbia, disperazione e risentimento, se non vere e proprie carriere criminali.

Dunque, è proprio nell’interesse di chi non ha commesso reati e pensa che non ci finirà mai, che noi proponiamo che sia abolito.

Tutti dovrebbero conoscere i dati di quelle poche e certe statistiche che dicono che il 67% di coloro che scontano interamente la pena in carcere entro sette anni sono di nuovo dentro, mentre solo il 19% di chi sconta una pena fuori dal carcere ci ritorna.

E’ certamente una battaglia difficile, ma merita di essere fatta. L’uso populistico del diritto penale acquieta gli animi scossi da episodi di violenza, ma non produce sicurezza. E, d’altro canto, si illude chi pensa di approfittarne per guadagnare qualche voto. Si tratta di consensi volatili quanto arrabbiati”.

E così conclude Anastasia: “Non è certo dai detenuti più pericolosi che si può partire per abolire le carceri, ma ci si deve liberare dal preconcetto che il carcere sia necessario. E’ successo con la schiavitù, i manicomi. Ci vorranno tempo e un processo graduale, ma deciso, di avvicinamento”.

Certo, la proposta di abolire il carcere è provocatoria. Ma le motivazioni alla base della proposta sono tutt’altro che irragionevoli.

E la proposta, quanto meno, meriterebbe una discussione approfondita e non un rigetto immediato.

E’ chiedere troppo?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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