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«Abbandonare la propria fede è possibile»

Nei paesi occidentali cresce il numero degli ex musulmani. Un fenomeno di cui ha parlato Sarah Haider, leader dell’associazione che rappresenta gli ex musulmani del Nord America, in un’intervista dell’Associazione svizzera dei liberi pensatori, pubblicata sul n. 4/2020 della rivista Nessun Dogma.

Sarah Haider doveva essere uno degli ospiti oratori più importanti dell’Apostasy Day, in programma a Zurigo il 21 marzo (poi annullato a causa della pandemia). Andreas Kyriacou ha parlato con lei della sua perdita di fede, dell’importanza del movimento che ha fondato, gli Ex Musulmani del Nord America, e di cosa si aspetta dalla politica.

Anzitutto dicci qualcosa della tua infanzia.

Sono nata in Pakistan. Quando avevo sette anni i miei genitori si sono trasferiti negli Stati Uniti: ricordo ancora quando imparavo l’inglese da bambina, avevo la chiara sensazione di star vivendo in un posto di cultura differente rispetto alla mia. I miei genitori erano musulmani relativamente liberali, ma le regole che mi imponevano erano comunque considerate conservatrici dai cristiani. Per esempio non mi veniva imposto lo hijab, ma ero spinta a vestirmi in maniera modesta e discreta. Quindi in America non sembravo una bambina normale della mia età.

Che ruolo ha avuto la religione nei tuoi anni da adolescente?

Quando ho iniziato a essere una teenager, che per quanto mi riguarda è quando sono diventata un essere pensante, mi sono resa conto che non mi stavo comportando in accordo con la mia religione. Allora cercavo di diventare una musulmana migliore. Quindi a tredici anni ho voluto indossare lo hijab. All’epoca vedevo questa come una mia scelta. È stato solo dopo che mi sono resa conto che avevo vissuto in un ambiente dove queste scelte venivano incoraggiate, e che quindi ero stata in qualche modo ‘guidata’ nelle mie decisioni.

Ero diventata perfino una specie di missionaria negli anni in cui indossavo lo hijab, volevo salvare le anime dei miei amici non musulmani.

Ma poi hai cominciato ad avere dei dubbi…

Sì, quando avevo 15 o 16 anni. L’idea che molte persone magari bravissime non potessero andare in paradiso solo perché l’islam non era mai stato loro rivelato mi sembrava ingiusto. Molto più avanti, parlando con altri ex musulmani, ho appreso che questa è stata la prima fonte di dubbio per molti. Questo sentimento comunque non portò subito a una perdita di fede. Mi dicevo che non necessariamente quello che mi sembrava ingiusto lo doveva essere davvero. Poteva semplicemente essere che non capivo ancora del tutto la mia fede.

Ma durante le scuole superiori entrai in contatto con l’argomento tipico degli atei: come si può spiegare il male presente nel mondo se il mondo è opera di un creatore ‘buono’? All’inizio ero scioccata dal fatto che qualcuno potesse essere non credente. Provai a controbattere all’argomento e a difendere la mia fede. Ignoravo le incoerenze teologiche e mi concentravo invece nelle spiegazioni scientifiche che in qualche modo sembravano supportare le mie credenze religiose.

Ma poi è precipitato tutto molto in fretta. Ho cominciato a visitare forum online di filosofia, e la mia fede ne è uscita a pezzi. Guardando indietro, direi che a scuotermi fu la necessità di affrontare le contro-argomentazioni degli atei. C’è un intenso dibattito tra i non credenti sulla necessità o meno di sfidare i credenti nei dibattiti. Io non mi vedo come un’atea militante, ma so che a suo tempo mi servirono due o tre schiaffi verbali per essere pronta a mettere in discussione la mia fede.

Sono diventata atea prima di diventare ex musulmana: in altre parole, ho smesso di credere in Dio prima di uscire del tutto dalla mia religione. Quest’ultimo è stato il passo decisamente più difficile: ero sicura che sarei stata stigmatizzata e che avrei perso gli amici se avessi espresso apertamente la mia volontà di lasciare la fede e l’ambiente musulmano.

Ma poi è arrivata la svolta, e sei stata la co-fondatrice degli Ex Musulmani del Nord America. Com’è successo?

Per molto tempo non sono entrata in contatto con altri ex musulmani. Poi ho incontrato Muhammad Syed. All’inizio non credevo davvero che fosse un non credente, non avevo mai incontrato nessuno oltre me che avesse abbandonato l’islam. Decidemmo allora, era il 2013, di fondare gli Ex Musulmani del Nord America, originariamente come gruppo di supporto per chi fosse nella nostra stessa situazione. Il riscontro fu incredibile. C’erano persone disposte a fare viaggi in auto di otto ore pur di essere presenti ai nostri incontri e interagire con noi e con gli altri. Ci rendemmo conto quasi subito che c’era la necessità di creare gruppi regionali.

Abbiamo lavorato fin dall’inizio nelle pubbliche relazioni così da portare attenzione verso i problemi specifici che devono affrontare gli ex musulmani. Oggi siamo fieri di dire senza problemi che è possibile e naturale abbandonare la propria fede, anche se questa fede è l’islam. Io stessa peraltro non mi definirei mai una “ex musulmana” se le persecuzioni verso chi lascia l’islam non fossero così drammatiche.

Nel 2019 abbiamo lanciato una campagna pubblicitaria per rassicurare gli ex musulmani. Inizialmente avevamo pensato allo slogan «Non c’è nessun dio, tranne Allah», ma con «tranne Allah» cancellato. Una compagnia pubblicitaria l’ha testato sui musulmani e successivamente si è rifiutata di utilizzarlo. Questo ci è capitato con diverse versioni dello slogan e con dozzine di compagnie pubblicitarie. Ma non ci siamo scoraggiati. Alla fine la campagna è partita con lo slogan «Senza dio. Senza paura. Ex musulmano». Non era la mia variante prediletta, ma è comunque una affermazione forte.

Come reagiscono i politici alla vostra dedizione verso gli apostati?

Storicamente, la non credenza è sempre stata vista come una questione squisitamente di sinistra, e lo è ancora oggi. Ma le preoccupazioni degli ex musulmani occupano un posto un po’ particolare nel dibattito pubblico. Le nostre istanze ricevono attenzione vera solo da due gruppi: gli atei e gli xenofobi. Il 95 per cento dei nostri membri si posiziona nel centro-sinistra, ma sfortunatamente non riceviamo alcun incoraggiamento da quella parte politica.

Parte della reticenza può essere dovuta al fatto che gli Usa sono ancora uno stato profondamente religioso. Purtuttavia, la partecipazione all’interno delle comunità religiose è in declino, e la mancanza di fede diventa sempre più accettabile anche nel contesto politico. La conoscenza della difficile situazione in cui si trovano gli ex msulmani, poi, è sempre più estesa. D’altro canto, però, la politica identitaria è sempre più importante.

I rappresentanti della politica identitaria e nazionalista considerano spesso la religiosità come un qualcosa di dato una volta per sempre e non modificabile. Ma noi ex musulmani con la nostra stessa esistenza siamo la prova del fatto che la visione del mondo che ha una persona è qualcosa di dinamico, che può abbracciare nel tempo anche idee diverse. A tal proposito, sarà interessante vedere come il dibattito sull’identità di genere influenzerà le politiche identitarie, che per molti versi si basano sull’immutabilità delle caratteristiche, ma che sembrano invece porre l’accento sulla fluidità nelle questioni di genere.

Una sfida ulteriore è data dal fatto che l’occidente vede sé stesso come plasmato dalla ragione e l’oriente come un mondo basato sulla tradizione culturale e sulla superstizione. Questo atteggiamento è proprio di entrambi gli schieramenti, anche se la sinistra tende a non rendersene conto. I rappresentanti dei democratici difficilmente accettano l’idea di mettersi a difendere il rigido dress code dei mormoni. La misoginia era una costante nella cultura vittoriana, ma nessuno chiede che si continui a seguire quelle tradizioni. Riguardo allo hijab, invece, molti a sinistra argomentano che si tratterebbe di un elemento legittimo della cultura musulmana, e che essendo parte della tradizione dovrebbe essere considerato importante ancora oggi.

Molti attivisti di sinistra considerano le ingiustizie nei paesi musulmani come un effetto primario o addirittura esclusivo degli interventi dell’occidente, visti come una sorta di peccato originale. Questo punto di vista così riduttivo sta in piedi solo se si considerano questi paesi come plasmati dalla tradizione e non dalla ragione o dalla volontà individuale dei loro abitanti. Tutto questo, alla fine, è razzista tanto quanto lo è descrivere i musulmani da destra come barbari incivili e incapaci di dar vita a società che funzionino.

L’aperto razzismo che arriva da destra spesso spinge la sinistra a una ulteriore insinuazione: che gli ex musulmani sarebbero stati spinti ad abbandonare la loro fede solo per via della scarsa reputazione di quest’ultima, dovuta all’odio delle destre. Questo è davvero incredibilmente presuntuoso: gli ex musulmani, in pratica, non vengono visti come persone dotate di autonomia di pensiero e di comportamento.

Il lavoro sulla politica è dunque molto complicato: gli ex musulmani non rientrano in nessuno schema di pensiero, né a destra né a sinistra, e il fatto che il nostro sistema sia basato su due soli schieramenti rende la nostra visibilità ancora più problematica.

Che cambiamenti vorresti vedere nel dibattito politico?

Dobbiamo riscoprire il valore universale dei diritti umani, per i quali la sinistra ha a lungo combattuto. Il relativismo culturale doveva portare comprensione e dubbio nel dibattito politico, ma ha finito per farci allontanare dai principi universali, specialmente tra le persone che dicono di combattere per le minoranze. Bisogna superare anzitutto questo problema.

Traduzione a cura di Mosè Viero

Intervista a Sarah Haider a cura di Andreas Kyriacou.

Intervista pubblicata in tedesco sul numero primaverile di “frei denken” e in inglese all’indirizzo https://free-thought.ch/news/2020-03-01/its-ok-give-your-faith-interview-sarah-haider

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