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A proposito di spiritualità

SPIRITUALITA’: “qualità di chi, di ciò che, è spirituale” – “attitudine a vivere secondo le esigenze dello spirito e a dare loro preminenza” (Il nuovo Zingarelli).
“Spirito” (latino: spiritus, da spiro-are): “principio immateriale attivo, spesso considerato immortale o di origine divina, che si manifesta come vita e coscienza” (Il nuovo Zingarelli). La parola può avere diversi significati, in relazione al contesto.
“Spiro” (lat.) = soffiare, spirare, respirare, vivere. “Spiritus” = lo spirare, soffio, spirito vitale, anima…
“Spiritualità” è tutto ciò che ha a che fare con lo “spirito”. Fa tutt’uno con l’idea che oltre alla materia esista un livello altro, diverso, “spirituale” di esistenza, capace di dare in qualche modo vita, senso, scopo all’esistenza della materia stessa.
 
Vi sono numerosi ambienti in cui si pone grande enfasi sulla “spiritualità”, senza che si abbia chiara coscienza di che cosa si debba intendere con tale termine, di quale concetto si esprima con esso.
 
Luoghi comuni, dei quali, a mio avviso, si abusa: si avverte un grande bisogno di “spiritualità”. L’importanza dei valori della “spiritualità”. La mente umana è naturalmente orientata a considerare i problemi della “spiritualità”, per l’alta considerazione del loro valore quale guida al perfezionamento morale dell’umanità. E’ di somma importanza valorizzare la “spiritualità” per vivere positivamente le esperienze di sofferenza e di dolore. La “spiritualità” è qualcosa che rende uomo l’uomo.
  
Nel linguaggio comune non v’è dubbio che nel parlare di “spiritualità” si intende fare riferimento a qualcosa di positivo, di buono, di bello, mentre ciò che si distingue o si oppone ad essa risulta essere, lo si espliciti o no, qualcosa di negativo, di cattivo, di brutto. Così frequentemente si sente affermare che quanto di negativo si riscontra nel vivere umano delle nostre società deriva dall’essere venuti meno i valori della “spiritualità”, che, di conseguenza, vanno riscoperti e nuovamente messi al centro degli interessi esistenziali dell’uomo.
 
E’ ben vero che ancora oggi nel nostro Occidente e, più ancora penso, nel resto del pianeta, gran parte della popolazione condivide climi culturali nei quali l’esperienza della “spiritualità” occupa uno spazio molto significativo, per non dire fondamentale, nel senso letterale di attribuire fondamento e senso all’intero orizzonte della vita e della morte. Ma è pur vero che nel costume e nella cultura dell’Occidente si assiste da più di due secoli ormai, dall’età dell’Illuminismo in qua, ad un progressivo crepuscolo della “spiritualità”, almeno nel significato che più comunemente si attribuisce a tale parola con il suo rinviare ad una dimensione immateriale dell’esistenza umana: a meno di accondiscendere, anche inconsapevolmente, ad un preoccupante fraintendimento, quando non ad una vera e propria pericolosa mistificazione nell’uso del vocabolo. Si deve in effetti riconoscere che sempre più numerose sono le persone che psicologicamente e culturalmente si collocano in un contesto che esclude la dimensione della “spiritualità”, vuoi per consapevole e responsabile scelta vuoi per inconsapevole indifferenza verso di essa.
 
E’ molto importante che tutti accettino il dato di fatto che vi sono persone che sentono di vivere nell’orizzonte della “spiritualità” ed altre che non si riconoscono in esso, in quanto solo da questa accettazione discende la possibilità del reciproco, necessario e giusto rispetto, specialmente in momenti cruciali della vita di ciascuno, ad esempio sulla soglia della morte.
 
Il problema nasce dal fatto che il vocabolo “spiritualità” ha assunto nel tempo un significato denso di ambiguità. Quando si parla di valori, di amore, di bontà, di fraternità, di ansia di giustizia, di ricerca della verità e del senso della vita, si fa riferimento a qualità o ad atteggiamenti umani che, nel corso dei lunghi millenni della storia della nostra specie, sono stati inestricabilmente connessi con quella che, presso tutte le popolazioni, si è configurata come l’esperienza della “religiosità”, con il rinvio ad una dimensione trascendente la pura materialità della natura umana. In questo senso “religione” e “spiritualità” hanno finito per essere sia pure impropriamente sinonimi, in quanto espressioni del medesimo insieme di tensioni dell’animo. Nella fase storica della modernità, nella quale le trasformazioni culturali hanno progressivamente messo in crisi il sistema delle fedi religiose, non per questo è venuta meno la tensione verso quell’insieme di valori positivi che prima trovavano il loro fondamento nella fede nella trascendenza e che ora, nel pensiero di molti, trovano giustificazione e significato nella libertà e nella responsabilità della mente umana. Ma continuare, come si fa, a parlare di “spiritualità” a proposito di questi valori non può che ingenerare confusione, poiché il rinvio reciproco tra “spiritualità” e “religione” finisce per far attribuire alla sfera del “religioso” tutto ciò che attiene alla “spiritualità”, escludendone di prepotenza chi non si riconosce in tale sfera.
 
In pratica accade che si dia dai più per scontato che la dimensione della “spiritualità” debba essere una caratteristica comune di tutti gli esseri umani senza eccezione e che, di conseguenza, si avverta quasi come una stranezza che delle persone non accettino di riconoscersi all’interno di essa. E’ questa una convinzione diffusa, da cui scaturisce il rischio di non rispettare chi è portatore di un concetto di umanità, tra i valori del quale non trova posto quello della “spiritualità”. Accade così che ci si persuada che in realtà tutti gli uomini siano “spirituali”, che non possono non esserlo, ma che, tuttavia, non sanno di esserlo. Spesso si sente affermare che tutti gli uomini sono alla ricerca di qualcosa che trascenda la materialità del reale e che il solo partecipare a tale ricerca li qualifichi come “spirituali”, indipendentemente dall’esito della ricerca. Si fatica, insomma, ad accettare che qualcuno dichiari di essere impegnato in un quadro di valori da cui resti esclusa la trascendenza. Avviene anche, per converso, che chi imposta le proprie convinzioni secondo una visione del mondo puramente immanentistica consideri come “stranezze” le credenze di coloro per i quali la “spiritualità” rappresenta un fondamento qualificante della propria natura umana.
 
Al fondo di questo duplice atteggiamento sta la difficoltà ad accettare le diversità che in tanti campi caratterizzano il modo di porsi delle persone di fronte ai problemi della vita, difficoltà che si riscontra in tutte le epoche storiche e in tutte le civiltà: di qui, talora, ideologie assolutistiche e fondamentalismi di ogni genere. E tuttavia l’accettazione e, di seguito, il rispetto delle diversità costituiscono un traguardo cui mi sembra doveroso che si debba sempre tendere, specialmente quando si tratta di condividere esperienze cruciali dell’esistenza in “spirito” – uso anch’io questo termine - di fraternità solidale.
 
Dal tema fin qui trattato in termini molto generali scenderò a considerare un caso concreto al quale possono riferirsi le considerazioni sopra svolte: l’esperienza che ci si trova a vivere nell’opera di accompagnamento di una persona alla morte. Il processo di accompagnamento alla morte è inestricabilmente connesso con l’esperienza stessa del morire e della morte e con quella delle sofferenze fisiche, psicologiche, morali della persona che si assiste. Esso cioè chiama in causa in chi accompagna il morente, nell’offrirgli una qualsiasi forma di conforto, il rapporto che egli stesso instaura con la propria morte, il modo in cui anch’egli pensa e sente la propria morte: gli attori del dramma si confrontano ad un tempo con se stessi e con l’altro; colui che si approssima alla morte e colui che partecipa fraterno e soccorrevole al suo cammino, entrambi volgono l’animo al “tu” con cui sono in relazione e insieme si interrogano sull’essenzialità dell’esperienza che stanno vivendo. Quello che si vive in tale circostanza è un dramma che tocca fibre profonde dell’animo delle persone coinvolte, gonfiando la mente e il cuore di pensieri e sentimenti.
 
Da ciò consegue l’importanza che chi accompagna un morente gli sia vicino con spirito profondamente “umanistico”, con autentica attenzione alla vita soggettiva del morente, alla sua sfera affettiva, alla sua interiorità, avendo fiducia nella propria capacità di “riattivare nell’altro il senso del proprio valore e della propria dignità” (Marie de Hennezel e Jean-Yves Leloup, “Il passaggio luminoso”). “Riattivare valore e dignità” significa aiutare a scoprire che, nella sofferenza del morente, può trovare spazio la ricerca del senso e del valore della vita e, soprattutto, può avere risposta il bisogno, che è di ogni uomo, di sentirsi sempre capace di amare e di essere amato.
 
Tale atteggiamento, va sottolineato, è da considerare valido e positivo per tutti gli uomini, a prescindere da fatto che essi sentano o meno di vivere nella dimensione della “spiritualità”.
 
Per molti, purtroppo, questo atteggiamento si qualifica come patrimonio esclusivo di qualcosa che appartiene per definizione alla “spiritualità”, muovendo dal presupposto – ma non si tratta piuttosto di un pregiudizio? – che la “spiritualità” appartiene a ciascuno di noi per il solo fatto di esistere e concerne il rapporto con valori che trascendono l’esistenza stessa, in qualsiasi modo vogliamo chiamarli” (M. de Hennezel-JY. Leloup, op.cit.). Da tale assunto deriva poi lo sforzo compiuto dalla de Hennezel e da Leloup per dare una corretta denominazione all’atteggiamento che ci si propone di assumere come correttamente ispirato alla “spiritualità”, anche per distinguerlo da un atteggiamento esplicitamente “religioso”: si parla così di “spiritualità laica”, di “umanesimo spirituale”, di “umanesimo aperto. Aperto a tutte le dimensioni dell’umano, anche a quelle che l’uomo ignora”. Ma proprio qui sta il problema: se il mio “umanesimo aperto” non accetta di considerare “le dimensioni dell’umano che l’uomo ignora” (ma se l’uomo le ignora, di che dimensioni mai si potrà trattare?), sarò per questo escluso da esso? Se nel mio esistere condivido con i miei compagni di viaggio tutti i valori nei quali, nel nostro contesto storico, psicologico, culturale, ci riconosciamo, primo tra tutti quello dell’amore che ci lega in quanto esseri umani, ad eccezione dei “valori che trascendono l’esistenza stessa”, non meriterò più di essere annoverato come “umanista”?
 
Dal caso sul quale mi sono soffermato si evince con chiarezza come il porsi nella dimensione della “spiritualità” senza al contempo riconoscere e apprezzare chi vive nella dimensione che, per comodità, chiamerò della “immanenza umanistica” o dell’ “umanesimo immanentista” o dell’ “umanesimo” sic et simpliciter, comporti il pericolo di un unilateralismo che tutti, sicuramente, desiderano evitare. E’ necessario, pertanto, aver sempre presente la complessità delle condizioni esistenziali delle persone che si pongono tra loro in dialogo relazionale, così che esse possano rispettare le loro reciproche peculiarità soggettive. Potrà così essere riconosciuto e valorizzato il ruolo della “spiritualità” per coloro che in essa trovano espresso il loro bisogno di trascendenza; si potrà, altresì, riconoscere e valorizzare allo stesso modo la dimensione della “immanenza” per quelle persone che intendono dare significato e valore ai propri atti di vita in uno spazio ed in un tempo che hanno per confini il nascere e il morire.
 
Del resto piace credere che valori e significati sui quali si qualifica il nostro vivere sono, alla fin fine, comuni a noi umani: penso all’amore, alla speranza, alla pace, per nominare alcuni di quelli che ci uniscono tutti nell’impegno di vivere con dignità le nostre giornate, sia che il nostro cuore sia aperto alla gioia sia che esso sia soggetto allo strazio.
 ____________________________
(L’opera a cui si fa riferimento è la seguente: Marie de Hennezel – Jean-Yves Leloup, Il passaggio luminoso, Rizzoli, 1998).

Commenti all'articolo

  • Di paolo (---.---.---.5) 18 maggio 2011 17:35

    Non è casuale che la spiritualità , nelle religioni monoteiste come la cristiana ,l’ebraica e l’islamica ,venga sublimata nello Spirito di Dio .

    Nella cristianità lo Spirito Santo ha pari dignità del Padre (Dio) e del figlio(Cristo) , costituendo con essi la triade divina . Secondo la tradizione teologica ,dallo Spirito Santo discendono tutti i valori dell’uomo.
    Chiaro quindi che la " spiritualità " , intesa come dimensione immateriale dell’uomo , venga fatalmente sovrapposta alla "spiritualità " religiosa . Da questo sincronismo deriva il giudizio negativo di materialismo in chi è ateo , essendo del tutto privo di spiritualità . 
    Quindi più che di spiritualità , come dimensione immateriale dell’uomo, sarebbe più giusto parlare di intelletto , ossia come quella capacità di formare un pensiero razionale . Poi il termine è abusato anche per definire alcuni comportamenti particolari , come per es . dire " è un’uomo di spirito " o perfino è " spiritoso " con le relative negazioni . 
    Insomma il concetto di spiritualità non è facile da spiegare, sicuramente assume un significato diverso a seconda del punto di partenza, ossia se laico o religioso .

    ciao

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