• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > A 30 anni dal sisma del 1980: analisi e provocazioni corsare

A 30 anni dal sisma del 1980: analisi e provocazioni corsare

A 30 anni dal sisma del 1980: analisi e provocazioni corsare.

In questi giorni non mancano le manifestazioni ufficiali per celebrare solennemente, alla presenza delle autorità istituzionali, il trentennale del terremoto che il 23 novembre 1980 sconquassò il Sud Italia con un’intensità superiore al 10° grado della scala Mercalli e una magnitudo pari a 6,9 della scala Richter. Una scossa interminabile, durata 100 secondi, fece tremare l’arco montuoso dell’Appennino meridionale, radendo al suolo decine di paesi dell’Irpinia e della Lucania e decimando le popolazioni locali. A trent’anni di distanza, il ricordo funesto di quella tragedia storica suscita negli abitanti che l’hanno vissuta sulla propria pelle emozioni assai forti e contrastanti, di sgomento e cordoglio corale, un profondo senso di angoscia e turbamento, di inquietudine, dolore e rabbia.

Fu in effetti il più catastrofico cataclisma che ha investito il Sud nel secondo dopoguerra, un immane disastro provocato non solo dalla furia degli elementi naturali, bensì pure da fattori di ordine storico, economico ed antropico culturale. Nei giorni immediatamente successivi al sisma, molti si spinsero ad ipotizzare agghiaccianti responsabilità politiche, polemizzando sui gravi ritardi, sulle lentezze e carenze registrate nell’opera dei soccorsi, lanciando una serie di accuse ispirate ad una teoria che chiamava in causa una vera e propria “strage di stato”. La furia tellurica si abbatté in modo implacabile sulle nostre comunità, ma in seguito la voracità degli avvoltoi e degli sciacalli, collocati al vertice delle istituzioni, completò l’opera di devastazione.

Per gli abitanti dell’Irpinia il 23 novembre rievoca un’esperienza traumatica e luttuosa, indica una data-spartiacque evidenziata sul calendario. La nozione “data-spartiacque” serve a spiegare in modo efficace che da quel giorno la nostra realtà esistenziale è stata sconvolta duramente non solo sotto il profilo psicologico, ma anche sul piano economico, sociale e culturale, facendo regredire il livello di civiltà dei rapporti interpersonali. Il terremoto ha stroncato migliaia di vite umane, ha stravolto intere comunità, segnando per sempre le coscienze interiori e la sfera degli affetti più intimi. I rapidi e caotici mutamenti degli anni successivi hanno prodotto un imbarbarimento antropologico che si è insinuato nei gesti e nelle percezioni più elementari, deformando gli atteggiamenti e le relazioni sociali, soffocando ogni desiderio di verità, di giustizia e rinascita collettiva.

Il ritorno a una condizione di “normalità” ha rappresentato un processo molto lento che ha imposto anni nei quali le famiglie hanno cresciuto i figli in gelidi container con le pareti rivestite d’amianto. La fine dell’emergenza, il completamento della ricostruzione, lo smantellamento delle aree prefabbricate, costituiscono opere relativamente recenti. Inoltre, la ricostruzione urbanistica, oltre che stentata e carente, convulsa ed irrazionale, non è stata indirizzata da una intelligente pianificazione politica volta a recuperare e consolidare il tessuto della convivenza e della partecipazione democratica, creando quegli spazi di aggregazione sociale che rendono vivibili le relazioni interpersonali e gli agglomerati abitativi, che altrimenti restano solo dormitori.

Nella fase dell’emergenza post-sismica le autorità locali attinsero ampiamente agli ingenti fondi assegnati dal governo per la ricostruzione delle zone terremotate. La Legge 219 del 14 maggio 1981 prevedeva un massiccio stanziamento di sessantamila miliardi delle vecchie lire per finanziare anche un piano di industrializzazione moderna. Si progettò così la dislocazione di macchinari industriali (obsoleti) provenienti dal Nord Italia all’interno di territori impervi e tortuosi, in cui non esisteva ancora una rete di trasporti e comunicazioni. Fu varato un processo di (sotto)sviluppo che ha svelato nel tempo la sua natura rovinosa ed alienante, i cui effetti sinistri hanno arrecato guasti all'ambiente e all'economia locale. Per inciso, occorre ricordare che il contesto territoriale è quello delle aree interne di montagna, all’epoca difficilmente accessibili e praticabili. Bisogna altresì ricordare l’edificazione di vere e proprie "cattedrali nel deserto" come, ad esempio, l’ESI SUD, la IATO e altri insediamenti (im)produttivi, in gran parte chiusi e falliti, i cui dirigenti, quasi sempre del Nord, hanno installato i loro impianti nelle nostre zone per sfruttare i finanziamenti statali previsti dalla Legge 219.

Il progetto di sviluppo del dopo-terremoto era destinato a fallire fin dall’inizio
, essendo stato concepito e gestito con una logica affaristica e clientelare tesa a favorire l'insediamento di imprese estranee alla nostra realtà, che non avevano il minimo interesse a valorizzare le risorse e le caratteristiche del territorio, a considerare i bisogni effettivi del mercato locale, a tutelare e promuovere le produzioni autoctone, sfruttando la manodopera a basso costo e innescando così un circolo vizioso e perverso.

Vale la pena ricordare che le principali ricchezze del nostro territorio sono da sempre l’agricoltura e l’artigianato. Si pensi all’altopiano del Formicoso, considerato il granaio dell’Irpinia, dove qualcuno, all’apice delle istituzioni, ha deciso di allestire una megadiscarica. Si pensi ai rinomati prodotti agroalimentari come il vino Aglianico di Taurasi o la castagna di Montella, solo per citare quelli a denominazione d’origine controllata. Un’enorme potenzialità, assai redditizia in termini occupazionali, è insita nell’ambiente storico e naturale, nella promozione del turismo ecologico, archeologico e culturale, che non è mai stato adeguatamente valorizzato dalle autorità politiche locali. 



Negli anni '80 l'Irpinia era la provincia che vantava il primato nazionale degli invalidi civili e dei pensionati, un triste e vergognoso primato se si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi, soprattutto giovani con meno di 30 anni, in grado di guidare automobili, di correre e praticare sport, di scavalcare i sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi addirittura i migliori posti di lavoro, di fare rapidamente carriera grazie alle raccomandazioni e ai favori elargiti dai ras politici locali, intermediari e referenti del cosiddetto "uomo del monte", il feudatario di Nusco. Nelle nostre zone l'Inps era diventato il principale erogatore di reddito per migliaia di famiglie. Ciò era possibile grazie a manovre clientelari e all'appoggio decisivo di figure importanti della società, a cominciare dai medici e dai servizi sanitari compiacenti, se non complici. Gli enormi sprechi compiuti dal sistema assistenzialistico e clientelare sono anche all’origine dell’attuale crisi della sanità irpina e di altre emergenze locali.

La rete clientelistica e assistenzialistica era un apparato scientificamente organizzato, volto ad assicurare il mantenimento di un sistema affaristico simile ad una piovra, che con i suoi lunghi tentacoli si era impadronita della cosa pubblica, occupando la macchina statale e scongiurando ogni rischio di instabilità e di cambiamento effettivo della società irpina. Il sistema protezionistico era onnipresente, seguiva e condizionava la vita delle persone dalla culla al loculo, a patto di cedere in cambio il proprio voto in ogni circostanza in cui era richiesto. Ancora oggi sindaci e amministratori irpini sono designati con la benedizione dell'uomo del monte, che fa e disfa le cose a proprio piacimento, costruendo o affossando maggioranze amministrative, indicando persino i nomi dei candidati all'opposizione. All'interno di questo apparato si risolvono e dissolvono i contrasti tra governo e opposizione, sistema e antisistema, precludendo ogni possibilità di ricambio e mutamento reale della politica irpina, che non a caso è ancora sottoposta ai capricci e ai ricatti esercitati da San Ciriaco, la testa pensante e pelata della piovra. 

La piovra del potere politico ha sempre gestito e distribuito posti di lavoro, appalti, subappalti, rendite, prebende, forniture sanitarie, in tutta la provincia, creando e favorendo un vasto sistema parassitario composto da decine di migliaia di addetti del pubblico impiego, del ceto medio, di liberi professionisti, che prima sostenevano la Democrazia cristiana ed oggi appoggiano i suoi eredi, collocati a destra e a manca. Si spiega in tal modo perché la struttura di potere si è conservata fino ad oggi, resistendo ad ogni scossone politico e giudiziario, sopravvivendo agli scandali dell’Irpiniagate, scampando alla bufera scatenata dalle inchieste di Mani Pulite all'inizio degli anni ‘90.

Tuttavia, in quegli anni abbiamo assistito a un processo di rapida mutazione antropologica dell’Irpinia. Con l’avvento della globalizzazione neoliberista, la società irpina ha subito un’improvvisa e convulsa accelerazione storica. Da noi convivono ormai piaghe antiche e nuove contraddizioni sociali quali la disoccupazione, le devianze giovanili, l’emarginazione, che sono effetti causati da una modernizzazione prettamente consumistica. Anche in Irpinia l’effetto più drammatico della crisi scaturita dal fallimento di un modello di sviluppo diretto dall’alto negli anni della ricostruzione è stato un processo di imbarbarimento che ha alterato profondamente i rapporti umani. I quali sono sempre più improntati all’insegna di un feticismo assoluto, quello del profitto e della merce, trasmesso alle nuove generazioni come l’unico senso e scopo della vita.

Il cosiddetto “sviluppo” ha generato mostruose sperequazioni che hanno avvelenato e corrotto gli animi e i rapporti umani, approfondendo le disuguaglianze già esistenti e creando nuove ingiustizie e contraddizioni, creando sacche di emarginazione e miseria, precarietà e sfruttamento in contesti sempre più omologati culturalmente. Rispetto a tali processi sociali e materiali, le "devianze giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere morale ed esistenziale. Per quanto concerne i suicidi l’Irpinia e la Lucania si contendono un ben triste primato.

Insomma, si può affermare che a trent’anni di distanza si perpetua l’arroganza di un potere affaristico, paternalistico e clientelistico che continua a ricattare i soggetti più deboli, riducendo la libertà personale degli individui, influenzando gli orientamenti politici dei singoli per creare e conservare ingenti serbatoi di voti. Tali rapporti di forza sono mantenuti in modo cinico e spregiudicato. Pertanto, è necessaria un'azione politica che propugni una trasformazione radicale e totale dell’esistente insieme con gli altri soggetti effettivamente antagonisti e progressisti presenti nella società irpina. Le nostre popolazioni sono tuttora soggiogate da una casta politica vetusta ed incancrenita che comanda con metodi ormai anacronistici, alla maniera del celebre"Gattopardo", convinto che tutto debba cambiare affinché nulla cambi e tutto resti come prima.

Il mio modesto contributo è semplicemente un tentativo di analisi e comprensione della realtà per provare a modificarla. La speranza di giustizia e riscatto delle popolazioni irpine reclama a gran voce un progetto di trasformazione concreta, ben sapendo che non conviene mai semplificare problemi tanto vasti e complessi perché rischia di essere controproducente. La realtà non è mai semplice come appare, è sempre contraddittoria e mutevole, per cui esige un approccio critico e un metodo investigativo capace di avvalersi di molteplici strumenti di indagine e di interpretazione dell’esistente, compresa la riflessione filosofica, che da sola non è affatto esaustiva o autosufficiente.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.206) 26 novembre 2010 16:35

    Un commento pubblicato sul blog Tele Lioni ha sollevato una obiezione sacrosanta rispetto al mio articolo, indicando la necessità di una narrazione più integrale delle vicende storiche post-sismiche, per segnalare e rivalutare (giustamente) ”l’opera, la tenacia e l’impegno senza interessi personali di chi stava al di là delle barricate e combatteva con la visione di un futuro migliore per Lioni e per le popolazioni irpine tutte”. Ho citato testualmente le parole dell’autore.

    Sono perfettamente d’accordo con questa rettifica. Riconosco che il mio articolo è parziale e incompleto da questo punto di vista, non certo per una omissione volontaria o una rimozione inconscia, bensì per altre ragioni, anzitutto di spazio e di opportunità pratica. Infatti, ho pensato di evidenziare gli aspetti più alienanti, brutali e regressivi della storia post-sismica, trascurando i momenti più esaltanti e positivi sul piano della solidarietà e della partecipazione sociale, della spinta alla lotta e al cambiamento, dell’azione politica di numerose persone effettivamente disinteressate, animate solo dal desiderio di riscattare la nostra terra martoriata.

    Tanto per cominciare, ricordo le testimonianze di amicizia e di fraternità, gli attestati concreti di soccorso forniti dai cosiddetti “angeli del terremoto”. I quali diedero prova di una generosità eccezionale, esprimendo un impegno corale che coinvolse migliaia di giovani provenienti da tutta l’Italia e l’Europa, per portarci conforto morale ed assistenza materiale, per scavare e salvare i sepolti sopravvissuti sotto le macerie, per soccorrere i feriti, insomma per contribuire alla fase più immediata e drammatica dell’emergenza.

    Rammento la memorabile esperienza dei “Comitati popolari”, che si costituirono nella fase riguardante l’assegnazione e la gestione dei prefabbricati, e furono coinvolti anche in altri importanti processi decisionali. Ricordo, con sommo piacere, la storia di Radio Popolare Lioni, un prezioso strumento di controinformazione proletaria, già molto attivo nella fase antecedente al terremoto del 1980.

    Rammento le discussioni collettive, i momenti di impegno e di partecipazione vissuti grazie al “Coordinamento giovani Lioni”, una indimenticabile esperienza di crescita personale, intellettuale e politica, durante la quale ebbi modo di mettere a frutto la mia passione per la militanza e per la scrittura, pubblicando nel 1982 (se non erro) il mio primo articolo su un giornalino autoprodotto da un gruppo di giovani lionesi che misero in pratica un bisogno di antagonismo, di autonomia e di autorganizzazione politica e culturale.

    Ricordo anche le iniziative culturali assai proficue, di rottura e critica sociale, a cui diede vita il “C.R.A.C.” (Centro Ricreativo di Aggregazione Culturale), che in un certo senso chiuse la fase di emancipazione e trasformazione progressiva, di partecipazione politica di massa, almeno nella realtà locale di Lioni durante gli anni ’80, che segnarono l’emergenza post-sismica e l’avvio della ricostruzione.

    La ripresa delle lotte e dell’’impegno politico avvenne verso la fine degli anni ’90, grazie soprattutto all’avvento del cosiddetto “movimento no-global”, che ha coinvolto ed entusiasmato una intera generazione di giovani (e meno giovani) anche in Irpinia.

    Per concludere, ricordo che nei cortei e nelle manifestazioni che si svolsero nella prima metà degli anni ’80, a cui presero parte molti militanti irpini, uno degli slogan più urlati era: “Ai morti dell’Irpinia non basta il lutto: pagherete caro, pagherete tutto!”. Ebbene, le vicende storiche successive hanno purtroppo dimostrato che a “pagare” sono sempre gli stessi, cioè i più deboli, i reietti e i miserabili.

    Lucio Garofalo

  • Di (---.---.---.235) 23 marzo 2011 13:45

    Castelfranci sotto i colpi dei famelici amministratori del dopo terremoto

    Si premette che quanto segue non è assolutamente rivolto alla persona in quanto tale bensì ad un ruolo politico che per ciò stesso è di natura pubblica e soggetto quindi alle opinioni del cittadino che ha liberamente investito quella persona di quel ruolo. Sono opinioni e vanno rispettate senza prevaricare nelle risposte ma ragionando con riflessioni legittime, fermo restando che siano a parlare i “fatti accaduti” con documenti ineccepibili in sintonia con la verità, non arzigogolando nei sofismi e nei cavilli pretestuosi.
    E’ il metodo storico: né più né meno. Proseguiamo dicendo che il centro antico del borgo non è più esistente per volontà scellerata della maggioranza eletta nel giugno 1980. La famigerata questione dibattuta nel consiglio comunale del settembre 1981 riguardò una fantomatica via di collegamento per la quale occorreva eliminare il vecchio abitato lungo la rupe del fiume Calore: in particolare i vicoli Pendino e Cancello declinanti verso il piano dell’Ortora.
    Per altre antiche abitazioni in via Calabrese: pretesti e ricatti.
    Ogni pretesto, ogni cavillo fu tentato onde poter demolire le antiche abitazioni del centro storico: fino al ricatto. Per testimonianza diretta cito la risposta classica (del sindaco, dell’assessore o del tecnico improvvisato e ignorante sul tema del recupero storico e artistico): non concederemo il contributo al ripristino di vecchie abitazioni destinate poi a crollare. La seduta principiò alle ore sedici in punto: vi fu il rapporto di un architetto repentinamente impugnato da alcuni cittadini ivi presenti. La minoranza subito espresse opinione contraria onde evitare lo scempio della memoria storica .

    Una documentazione esaustiva della disputa appena trattata è contenuta nel libro di Alessandro Di Napoli, Castelfranci tre anni dopo, Tipografia Irpina, Lioni (Av) 1984, pp. 111-113. L’autore giustifica le posizioni della maggioranza: licet, quod cuique libet, loquatur (Cic.).

    Il dibattito in quella grigia aula delle adunanze fu quanto mai concitato e a niente valsero le arringhe dei minoritari: il destino del vecchio paese era di già segnato. Si riproduce un significativo brano del discorso che enunciò il consigliere di minoranza Angelo Bocchino.

    «E’ inconcepibile distruggere...il centro antico per costruire strade...inutili... Nel prendere visione…della bozza...m’è venuta in mente la Sicilia. Ritengo [quanto segue]: la maggioranza s’é affidata a tecnici che intendono risolvere il problema solo da un punto di vista progettuale trascurando i motivi storici, sociali e affettivi. Per questo non sono favorevole...». Parole profetiche.

    Si confronti l’archivio del Comune di Castelfranci, Registro delle deliberazioni comunali, settembre 1981. V’è in architettura una questione di straordinaria importanza, diremmo “decisiva” per l’uomo: ciò che l’ambiente può causare nei comportamenti sociali (il determinismo dello spazio).
    Il concetto non è di comprensione difficile e può spiegarlo un semplice paragone: si pensi il modo di vivere in una grande periferia urbana e quello in un vicolo di un paesino. Si confronti pure Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis editore, Milano 1997.

    Perché si addivenne a quella turpe volontà? perché mai annichilire quelle vestigia di lontana rimembranza? fu solo bruta ignoranza del Bello? il terremoto del novembre 1980 fu evento incontrollabile, seguirono “distruzioni incontrollate”: ovunque si distruggeva senza discernimento di sorta.
    Si ricordi l’emergenza progettuale e legalizzata da una legge speciale: la numero 219 del 1981. Si aggiunga la legge n° 187 del 1982 che riduce i poteri delle Soprintendenze a tutela del patrimonio storico e identitario: un capolavoro dietro l’altro. Talvolta si giustifica il Legislatore: licet, quod cuique libet, loquatur (proprio così come diceva Cicerone).
    Talaltra si giustifica dicendo: i cittadini vogliono la comodità. Ebbene: e chi la nega? e allora: si costruisca il nuovo ma non si distrugga il vecchio. Dicesi che di artistico v’era ben poco da salvare. Ma la questione è un’altra: è questione d’ignoranza. La nostra tradizione non era solo estetica: v’era un borgo in cui, per l’umano spazio raccolto in una architettura armonica, si corroboravano legami arcaici, sentimenti, vicinanze familiari, conoscenza e solidale colloquio tra generazioni: vi pare poco? In qual maniera alla calamità naturale si congiunge il disastro legalizzato? La legge n° 219 sottrae il 20% dal contributo dei cittadini che intendono ripristinare la vecchia abitazione. Ecco la chiave di volta. Ecco la manna per i famelici amministratori. Si promette, si vagheggia, si lascia il luogo natio. E così come detto il destino del borgo antico è segnato: l’intrigo politico, i reboanti proclami della villa signorile, la furberia del contributo conforme al numero di famiglia, l’utopia del paradiso venturo riducono il paese a immagine e somiglianza di periferia urbana per chi lo rivede e poi ne ricorda l’antica bellezza. Si riconosca comunque l’intuzione del Bello o, per non usare parole ridondanti, un recupero intelligente benché non sia tanto l’intelligenza quanto la conoscenza estetica alla base di certe iniziative benemerite. Si pensi ad esempio Rocca san Felice, Nusco, Torella, Gesualdo, Sant’Angelo, Guardia, Castelvetere, nonché la splendida Dogana aragonese di Flumeri: architetture e bellezze ritrovate. In alcuni borghi della verde Irpinia, vuoi per volontà di popolo vuoi per lungimiranza di sagge autorità culturalmente preparate, sono riportati agli antichi splendori: monumenti, palazzi, castelli, monasteri, conventi, episcopi. Si recupera un gusto estetico concomitante quell’economia turistica che a noi appartiene per natura e costume. «La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza di cui ella è madre» diceva Gabriele d’Annunzio ne “Il libro ascetico della giovane Italia”. Perché Castelfranci, borgo medioevale come il nome stesso racconta, non può rivendicare la sua millenaria tradizione? perché cotanto scempio? perchè quel disastro nel bosco di Baiano? perché la bruta mania della distruzione barbarica?

    «Nell’area del cratere si è recuperato pochissimo degli antichi insediamenti.
    Alle distruzioni della natura si aggiunsero quelle “progettuali”: contenute negli strumenti urbanistici e legalizzati dalla legge speciale n° 219 del 1981.
    Fu conseguenza della miopia amministrativa generalizzata: ignorando il valore delle preesistenze e nell’enfasi del consumo finanziario si è annientato un patrimonio storico architettonico di grande valore culturale e ambientale. La distruzione avvenuta e la cancellazione di ogni segno della civiltà altirpina penalizzano ancora una volta il rilancio del nostro territorio.
    La legge numero 219 ha premiato la distruzione e la ricostruzione ex novo a discapito del recupero e del restauro: si è abbattuto il patrimonio preesistente mediante un incentivo economico legislativo. Cioè: tutti quei cittadini che intendevano recuperare o riparare la prima abitazione erano penalizzati con una decurtazione del 20% sul buono contributo rispetto a quelli che diroccavano e ricostruivano beneficiando di sovvenzioni per il cosiddetto adeguamento al numero familiare, superfici non residenziali e autorimesse.
    Una concezione perversa: i proprietari con un incentivo in denaro abbandonavano il centro storico sperando in condizioni di vita migliori nelle ville dei cosiddetti piani di zona. E così centri abitati trasferiti in lontananza con aumento abnorme di luoghi urbani desolanti. La legge n° 187 del 1982, modificando la n° 219, ridusse ulteriormente i poteri delle Soprintendenze impegnate nella salvaguardia dei beni architettonici e non si potè esprimere vincoli sul patrimonio minore o privato. In breve: ragioni di ordine politico, amministrativo e culturale furono alla base di legislazioni distruttive [e di saccheggio] per un ventipercento in più. Al termine del processo ci ritroviamo una moltiplicazione dei luoghi abitativi, sono diroccati i centri storici e costruiti i piani di zona. Cioè: costose periferie urbane con l’inevitabile degrado sociale, tornaconti e tangenti. Si pensi: Morra, Lioni, Bisaccia, Castelfranci. Un senso di “non finito” caratterizza quello che rimane del vecchio e del nuovo. Si pensi lo spreco del pubblico denaro in Laviano. Ma si registrano casi di recupero intelligente: Guardia, Rocca, Gesualdo, Sant’Angelo, Nusco, Sant’Andrea di Conza. Tranne poche eccezioni, ad un quarto di secolo dal terremoto, in tutti gli altri Comuni non risulta definito né quanto rimane del centro antico né quanto si è cominciato ex novo. Nei luoghi storici rimane il vuoto lasciato dagli edifici trasferiti: sono presenti ruderi e sterpaglie. Si aggiunge: il recupero di alcuni borghi per fine turistico tra i quali anche Castelvetere dimostra che il medesimo costa meno di una nuova costruzione» .

    L’ultimo capolavoro del Legislatore si chiamò con seguente terminologia: ristrutturazione urbanistica. Cioè: coloro i quali intendevano rimanere nel centro storico ottennero il diritto di farlo pure ampliando superfici edilizie accanto o al di sopra delle proprie particelle. Risultato: in teoria il recupero, in pratica nuova edilizia tra le vecchie tipologie. Si immagini l’obbrobrio. O meglio: lo si osservi.
    La caratteristica di una comunità è il forte legame al piccolo ambiente in cui si vive, al suo tempo ciclico, alle stagioni, alle costumanze: è cosmos (ordine) che riunisce gli intenti, accoglie l’armonia, espelle, rifiuta l’emarginazione del singolo. Non v’è posto per la solitudine, l’individualismo apolide, per l’angoscia dello spazio universale, ampliato, smisurato, desolato. La comunità è appartenenza, è come un cerchio sacro dove si è protetti da chi si conosce e si riconosce, dove tutto è sempre identico a se stesso e diverso da ciò che esiste altrove. Ogni comunità possiede una cultura, un patrimonio spirituale proveniente dagli antenati, un luogo determinato. Permane nella distinzione con altre comunità egualmente sacre perché diverse nelle abitudini e nello “spazio”.
    Ma quando uno straordinario evento sopraggiunge devastando il cerchio sacro si è come trasportati nel caos della confusione, dell’indistinto, dell’irriconoscibile, dell’inconoscibile. Così è la periferia urbana: non si conosce e non si riconosce l’identità, la storia di una vita, quella di una cultura amica, di una civiltà comune e condivisa. E dove sarà più il genius loci? e lo spazio a misura d’uomo? e la dimora dove si nacque? e il vicolo dell’infanzia? e la vita sociale? e gli affetti più cari? e quel che i latini dicevano "comunitas"?
    Questo accadde negli infausti anni ottanta: si annullò il topos (spazio) chiuso e limitato per dare esistenza al topos ampliato, orbo di limiti e confini, privo di “spazio umano”. Si cancellò il passato, l’antico, l’appartenenza, la memoria. Nella distruzione del centro storico l’unico metro di giudizio fu il calcolo: la misura, la quantità, il potere, il denaro. E quale evento è propizio come quello straordinario per consentire la corruttela politica, il losco affare del predone, l’opera inutile, il numero falsificato dei Comuni colpiti? di quì il ridurre al nulla separando ciò che per essenza è unito: uomo e ambiente, uomo e comunità, uomo e tradizione, uomo e spazio, uomo e bellezza, uomo e storia, uomo e cultura. Nel concetto summenzionato rientrano la volontà famelica, l’incapacità, l’ignoranza, di chi è deputato al governo della cosa pubblica: non può essere altrimenti. Si richiama un concetto: v’è in architettura una questione di straordinaria importanza, diremmo decisiva per l’uomo: ciò che l’ambiente può causare nei comportamenti sociali (il determinismo dello spazio). Il concetto non è di comprensione difficile e può spiegarlo un semplice paragone: si pensi il modo di vivere in una grande periferia urbana e quello in un vicolo di un paesino. E quindi: se degrado urbano allora decadenza sociale. L’imbarbarimento antropologico fu ulteriormente aggravato da un’altra “geniale” idea della classe politica democristiana: il covulso, maldestro e irrazionale progetto dell’industria nelle zone tortuose di montagna.
    Come si potè immaginare una cosa del genere all’interno di zone o territori impervi dove a stento già i primi soccorsi nella fase dell’emergenza riuscirono a varcare? come mai si ignorava che l’economia del Meridione fosse di prevalenza agricola, turistica e artigianale?

    Tutto appare come un paradosso ma tant’è: spreco, abiezione, ruberia, malaffare, abuso, falso ideologico in atto pubblico. Cosa c’è di più obbrobrioso come lo speculare sulle disgrazie umane? ciò nonostante i politici locali e nazionali furono di ben altro avviso. Il Mezzogiorno d’Italia con l’Irpinia in particolare fu il luogo del più cinico potere clientelare con rapporti di forza tale da costituire uno dei più vasti apparati di consensi tra le masse popolari riducendone la libertà di scelta ricattando le coscienze di persone indigenti e per ciò stesso deboli e indifese. E si trattò di un potere politico e camorristico al tempo stesso: forte, tenace, invincibile, indistruttibile che uscì indenne da una lunga serie di processi e inchieste giudiziarie. Nel 1988 Montanelli dalle righe del quotidiano “Il Giornale” tratta la gestione illecita del pubblico denaro assegnato alla ricostruzione in Irpinia da parte di alcuni importanti esponenti politici di quel tempo: ovviamente democristiani per la maggior parte. E ancora Martini scrive su “Panorama” un articolo sul medesimo argomento. Per indagare su codesti illeciti fu istituita una commissione parlamentare presieduta dal democristiano Oscar Luigi Scalfaro: futuro Presidente della Repubblica.
    E cosa accadde? ciò che era prevedibile.
    Ricordando che fra le persone coinvolte figuravano i nomi di Ciriaco De Mita, Cirino Pomicino, Enzo Scotti, Antonio Gava, Francesco de Lorenzo e il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti: l’inchiesta ebbe fine con la prescrizione dei capi d’accusa e la totale assoluzione degli altri imputati.

    Il presente documento esprime altresì la rimembranza e l’avvertita nostalgia per la distruzione del centro antico ancor più bello nel ricodo. Ma quali furono le cause che negli anni ottanta deformarono le sembianze del vecchio paese? non lo sappiamo né vogliamo saperlo. Quando il barbaro disastro è compiuto a che serve la conoscenza delle cause? e se chi non è oblivioso chiede, è già pronto il sofisma del politicante: l’astuta abilità di gabbare il povero cittadino che di questioni amministrative ben poco sa. Ma i sofismi, cioè gli argomenti fallaci, sono parole: la bruttezza del paese invece è una cosa che di leggieri si vede. Non esitiamo a definirlo “brutto” giacché privo di ogni elemento estetico in armonia con la geografia irpina che tanto ricorda quella umbra e toscana: non esitiamo a definirlo “brutto” perché rimesso nelle maldestre competenze di progettisti ignoranti e costruttori improvvisati. Quando si studia l’architettura dei borghi medioevali si entra in questioni a tal punto complesse che non può decidere un sindaco o un ingegnere qualunque. Lo diciamo per ubbia? no. In questi ripetuti accenni al patrimonio identitario, fuori dal proposito di una semplice informazione storica e del comune sentire, non si consideri nessuna polemica denigratoria verso istituzioni in generale o persone in particolare. Ma cosa vuol dire “patrimonio identitario”? è tutto ciò che l’uomo crea. E’ tutto ciò che la persona apprende con i sensi e l’intelletto da quando principia la sua vita. E’ tutto ciò che amorevolmente la circonda: famiglia, abitudini, casa, borgo, città. E’ tutto ciò in cui si ritrova, si riconosce, “si identifica”. E’ tutto ciò che nel corso del tempo la rende quella che è da ogni punto di vista: affettivo, psicologico, culturale. L’uomo non è creatura statica: pensa, progredisce, inventa l’irrinunciabile, quanto senza di cui muore nello spirito. Allorché si distrugge un’opera d’arte si violenta il bello, allorché si distrugge la tradizione si distrugge la persona. E la politica nel significato nobile del termine si allontana dal suo campo, non esplica la sua autentica funzione e disattende ciò per cui essa è portatrice di progresso umano. La totale assenza di fondamento culturale, la poca influenza che il sapere esercita sulla politica consentono alle questioni pratiche e sociali di essere appannaggio di un ceto di bottegai giocoforza incapaci di una visione più in là delle circostanze immediate. E così “la politica...diventa una mediocre faccenda composta di piccole cose quotidiane, più vicina...alla pratica minuta degli affari di un mercante che non alla complessità vasta e concitata della storia. E così...ci sono i politicanti della giornata spicciola, ignoranti, grossolani e prosaici, miserabili e inutili, totalmente privi di autorità morale e civile e solo intenti a ricamare la piccola bugiola della loro vita”. Par che questa citazione di Prezzolini dia un concetto chiaro e preciso di quanto via via si è detto nel documento: accanto all’ignudo racconto una sua comprensione critica che è il sogno dell’arte (la bellezza) sotto i colpi del malaffare. Sulle rovine un unico segno è riposto: il “niente” che dichiara la fine di una tradizione, di una civiltà, di una comunità. Se ciò non fosse, che significato conterrebbe il semplice narrare?
    Ogni accadimento, nel bene e nel male che produce, porta con sé una ragione: e quì, nelle cause, si ritrova o la gratitudine o la protesta, o l’onore o la disonestà, o buon governo o il contrario. E perché abbiamo enunciato le parole “onore” e “disonestà”? perché la cultura priva di morale: talvolta è perniciosa ancor più dell’ignoranza. Perché la funzione della cultura, in tutte le questioni politiche e pratiche, consiste anche nel corroborare la coscienza umana dinanzi agli impulsi miserrimi del lenocinio e al contagio quasi inevitabile della corruttela. Ecco perché è possibile nonché doveroso determinare qualsiasi movimento di opinione che sovverta l’arroganza di chi ancora spadroneggia. Per nostalgia? no: talvolta non è saggio restaurare, ma lo è sceverare, discernere il passato, buono e cattivo, bello e brutto, traendone tutti gli insegnamenti possibili. E mai obliando eventi e persone disoneste e miserabili. Per maggiori conoscenze e approfondmenti si legga il libro di Ippolito Negri, La grande abbuffata e le mani rapaci sull’Irpinia del dopo terremoto, Milano 1996.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares