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56 giorni di carcere per un tweet: il rischio della "tastiera libera"

Contro i prossimi Liam Stacey «l’ultima frontiera», scrive Paolo Di Stefano sul Corriere, «potrebbe essere quella che separa il ragionamento dal delirio». Ma è una barbarie che sia la legge a tirare la linea tra un tweet accettabile e uno che ti costa 56 giorni di carcere.

Al 21enne è successo per parole razziste su Twitter contro il calciatore Patrice Muamba. Sbagliato, certo, ma è una pena commisurata al danno? Se ne potrebbe discutere. Di Stefano lo fa, tirando in ballo la polverizzazione del confine tra «il parlare e lo scrivere», nonché tra «pubblico e privato», messa in atto dai social network. Questioni pertinenti, e importanti per inserire il caso Stacey in un quadro più ampio. Eppure c’è qualcosa di sinistro nel ragionamento dell’editorialista. Che da un lato conclude che punizioni di questo tipo equivalgano a «svuotare il mare con un bicchiere».

Dall’altro lo fa tramite una premessa che trovo errata, e pericolosa. Per Di Stefano, la radice del problema sta nel «vizio d’origine» dei social network: «Esistono perché ognuno possa scrivere quel che vuole, in piena libertà». Togli questa possibilità, e hai tolto il social network.

Ammettiamo sia vero: che Twitter non abbia già una sua politica di rimozione dei contenuti illeciti e che i social media non subiscano alcun tipo di censura o limitazione legale nel mondo. Dove sta il vizio? Beh, scrive l’autore, nel fatto che ciò – moltiplicato per miliardi di messaggi e centinaia di milioni di utenti – finisce per «solleticare le velleità narcisistiche del primo imbecille o mitomane». Si aggiungano la fine dello «scripta manent» e della privacy, ed ecco moltiplicarsi odio e razzismo. L’ipotesi è già di per sé discutibile (cosa dimostra che odiamo più di prima?), ma la conseguenza disegnata da Di Stefano lo è perfino di più: «La sentenza di Swansea è certamente esemplare, ma per uno Stacey punito, quanti milioni ne restano a piede libero, anzi a tastiera libera?» Ecco, questo è il pericolo: che una concezione determinista della tecnologia – riassunta nell’idea che i social network siano irrimediabilmente viziati all’origine – si traduca nell’idea paradossale che essere «a tastiera libera» sia un male. Non solo per l’individuo, ma per la società intera, al punto di costringerla a pene esemplari e, lo ammette perfino Di Stefano, inutili.

Ancora una volta, la riflessione dovrebbe essere antropologica, prima ancora che tecnologica. Dovrebbe riguardare le radici del razzismo tra i giovani inglesi, più che le caratteristiche di Twitter. Perché se è vero che pubblico e privato si confondono, e che l’occasione fa l’uomo ladro, è troppo comodo cavarsela dicendo che «i social network abbiano sancito l’opportunità di delirio a reti globalizzate». Perché il teorema si realizzi, servono quelli che delirano. Mandarli in carcere per un’opinione – per quanto aberrante – non aiuterà a ricondurli tra quelli che ragionano.

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