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27 Gennaio il giorno della memoria visto da Auschwitz

27 Gennaio il giorno della memoria visto da Auschwitz

Se se ne parla qualche giorno dopo il 27 gennaio, è per più di una ragione. Da una parte, è difficile scrivere a freddo, dopo essere stati in un lager. Secondo, perché bisognerebbe parlarne tutto l’anno. Altro che giorno: la Memoria andrebbe conservata ogni istante.
 
La Provincia di Napoli ha varato, da alcuni anni a questa parte, un progetto per i licei. L’iniziativa consiste nel portare i migliori allievi di ogni classe in visita ai campi di sterminio di Auschwitz, in Polonia, in occasione delle celebrazioni legate al Giorno della Memoria. Assieme alle delegazioni di molti paesi venuti ad omaggiare i morti nei campi di sterminio e a rifiutare (“Mai più” è lo slogan permanente) la barbarie, anche i giovani napoletani hanno avuto la possibilità di guardare da vicino la più ributtante impresa umana di tutti i tempi. “Il più grande omicidio di massa perpretato dall’uomo”, si legge su una lapide. Auschwitz, Birkenau, gli inferni dai nomi così sinistri sono ancora là, in quella landa remota a pochi passi da Cracovia. E la prima sorpresa, come dice il giovane Salvatore dell’Istituto Galileo Ferraris, è che “sono posti in una terra bellissima. Fredda, desolata, ma dal fascino molto potente. Assurdo pensare a tante atrocità in questo paradiso di sole e neve”. Un conflitto aperto è l’eredità più cruda del Male.

La giornata del 27 è divisa in due fasi: la mattinata è destinata alla visita ad Auschwitz 1, dove i prigionieri andavano a lavorare e venivano “accolti” dai loro perversi ospiti dai terminal della ferrovia che finiva nei presi della scritta “Arbeit match frei”. Con la B capovolta dal fabbro ebreo che la realizzò in segno di protesta.
Si entra nelle camerate dove i reclusi dormivano a gruppi anche di 12 in due lettini, si osserva con raccapriccio la zona latrine. E si resta sgomenti davanti alle migliaia di foto appese alle pareti.

Uomini, donne, bambini con occhi sbarrati che guardano dritto alle coscienze con spaventosa attualità. E pigiama a strisce. Unico loro indumento consentito, col gelo o i 40 gradi all’ombra d’estate. Le date di ingresso e morte, poste con zelo dai tedeschi in calce alla diapositiva, parlano chiaro: pochi, specie d’inverno, sopravvivevano più di due giorni. Sfilano immagini e molti quadri dipinti nel dopoguerra. Ce n’è uno incredibile: ritrae il ritorno dal lavoro, con una banda costretta a suonare marcette allegre tra gli schiamazzi di SS e kapò. Le guide raccontano che all’inizio i nazisti simulavano buone maniere: raccomandando a tutti di segnare nome e data di nascita sulle valigie. Indicavano poi le camere, e la vacanza nell’incubo poteva cominciare. Quello che segna maggiormente i ragazzi, e che ritornerà nei discorsi della sera, sono “i capelli. Non ci credevo, sono rimasta per un tempo che non saprei calcolare davanti a tutte quelle ciocche. Un orrore”, confessa Ilaria, diciassettenne del liceo scientifico di Sant’antimo. Si riferisce alle molte montagne di chiome che i nazisti strappavano a morti e morituri, per ricavarne stuoie e tessuti. Insieme alle colline di scarpe e spazzole, inserite con drammatica ma efficace scelta dagli allestitori tra le teche del Museo-Lager, costituiscono i reparti più parlanti. O urlanti.
 
Nel pomeriggio la comitiva di professori, alunni, politici e giornalisti si trasferisce a Birkenau, Auschwitz 2. Il luogo delle camere a gas, il regno di Zyklon B. Le torrette di guardia, il filo spinato, la precisione geometrica dei capannoni dell’enorme campo (17 volte più grande del primo) lascia senza fiato. E anche qui la rabbia più forte la suscita l’intimità. I bagni. Squallidi buchi in fila, con sotto gabbie di metallo che impedivano ai prigionieri di nascondersi tra i propri escrementi. Immagine mortifera solo lievemente attutita dallo sciamare di bambini di tutto il mondo, pellegrini della religione civile della memoria. Chi si aspettava la Mejdugorie degli ebrei, con speculazioni di turismo e marketing, ne rimane deluso. Non una bancarella né chiosco, nessuno approfitta del Male per tirarci su qualche soldo. A dirla con la Arendt, sarebbe stato banale. Giusto dei gazebo muniti di stufa per la distribuzione gratuita di the caldo che riscalda gli aventori. Il freddo ruggisce, siamo a -25. Ma c’è tanta gente. Lasciano corone di fiori, stendardi. E non si capisce da dove vengano né importa: Primo Levi scrisse: “da qualunque paese tu venga, qui non sei un estraneo”.

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