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1973, nell’Inverno di Praga

1973, NELL'INVERNO DI PRAGA

Praga. La Cittadella. (foto “Turismo Italia”)

Emanuele Macaluso: “E tu che ci fai qui?”

L’episodio si verificò nel 1973 a bordo di un aereo della compagnia cecoslovacca in volo da Roma a Praga. Ero seduto nella prima fila di destra con dietro pochi altri passeggeri, quando vidi salire Emanuele Macaluso, Salvatore Cacciapuoti e Gianni Cervetti ossia la prima delegazione del Pci che, dopo la condanna dell’invasione del 1968 della Cecoslavacchia da parte delle truppe di diversi Paesi del Patto di Varsavia, si recava a Praga per colloqui con i dirigenti del Pc cecoslovacco.                                                                      I rapporti con Macaluso erano “freddini”. Da appena un anno ero segretario provinciale del Pci di Agrigento, dopo un durissimo confronto congressuale con gli uomini dell’ala migliorista di Macaluso (segretario regionale del Pci e membro dell’Ufficio politico) il quale inviò ad Agrigento, oltre al suo referente locale Michelangelo Russo, il “grande saggio” della segreteria nazionale Paolo Bufalini. Appena mi vide ebbe come una smorfia di sgradita sorpresa. Si trasformò in viso. Mi fissò un paio di volte, indi si avvicinò: “E tu che ci fai qui?”                             Gli risposi con nonchalance: “Niente! Sono stato invitato a Praga dal direttore della Radio ceca e ci sto andando...”  "A fare che cosa?”, riprese Macaluso in tono vagamente inquisitorio.                                    “Boh! Non conosco il programma. Credo che parleremo di lotta per la pace...”                               “Ma tu capisci dove stiamo andando noi? Siamo la prima delegazione dopo il ’68 e chi troviamo sul nostro aereo: Spatarino, il segretario della federazione di Agrigento, invitato da quelli di Radio Praga!”                      “Si, so cosa andate a fare. Stai tranquillo che non invaderò il campo. Parlerò soltanto di lotta per la pace nel mondo. Avrei voluto differire il viaggio, ma non è stato possibile.” Cercai di rassicurarlo.                               Allo sbarco, a Praga, loro naturalmente scesero per primi. Macaluso si girò verso di me e mi fissò come per dirmi “stai attento a quello che dici e che fai”. 

                                                              Ad attenderli, ai piedi della scaletta, c’era Bilak (l’uomo forte del regime) che se li portò a bordo di una limousine nera. Le preoccupazioni di Macaluso non erano del tutto peregrine (anch’io le avevo). Durante il soggiorno (8 giorni) dovetti svicolare, resistere a diversi tentativi e a domande mirate a far emergere qualche contrasto all’interno del Pci, fra il vertice e la base, sulla situazione della Cecoslovacchia e in generale sui rapporti con l’Urss.                Resistetti “eroicamente” anche alle insistenti richieste dei compagni “esuli” italiani in servizio presso radio Praga e anche alle profferte allettanti, e generose, di una bellissima compagna ceca che mi portò a ballare in un locale della piazza San Venceslao.

L’INCANTO DI PRAGA E LO SPIRITO DI KAFKA

Tornai a Praga (marzo 1988) per partecipare ai lavori della Conferenza mondiale della Pace nel corso della quale svolsi un intervento in sede di commissione “Mediterraneo e Medio Oriente”. Tuttavia, non è questo che mi preme ricordare del viaggio, ma l’incanto di Praga, quel che vidi di bello e le suggestioni suscitate dalla grande visione che dal Castello, dalla cattedrale di S. Vito erompe nella cornice della Cittadella.                                  Le trascrivo come le vissi.                                                                         1… “Il Castello di Praga lì sull’altura. La grandiosa cattedrale che domina la fortezza. Vi sento alitare lo spirito di Franz Kafka. Potenza del genio dissacratore del potere burocratico maggiore. Di quel Kafka che scrisse in tedesco e che amò Milena sulle rive del lago di Garda.                                                          Quel castello austero domina ancora il borgo e oggi la metropoli. Ed ecco l’omino di Kafka salire, ogni giorno, per quelle stradine, inerpicarsi fino al suo ufficio e qui svolgere la sua mansione. Le carte, i timbri, le istruzioni ricevute, scrupolosamente osservate, i registri contabili, le buste da leccare e imbucare. La vita ferve, glaciale, nel castello, nella cancelleria.                                                                          Sembra che Kafka abbia scritto invano. Il castello non ha mai cessato la sua consueta funzione: carte, timbri, istruzioni, sanzioni. Solo il marchio è diverso.                                                       All’interno gli uomini vi stanno come prima. Oggi hanno nuovi timbri, nuovi stampi da applicare.                  Kafka distruttore dell’ordine supremo eretto dagli uomini per innalzare il potere fino all’apice di una montagna di carte, di registri, di relazioni. E tutto quell’inchiostro che succhiano gli uomini avidi che ingoiano rancori e producono fiele. Si produce quel che s’introduce: le api succhiano il nettare dai fiori e producano miele.                    Lo spirito di Kafka aleggia, baldanzoso, intorno al castello di Praga. ma non sarà mai un ospite gradito.

2…Il fruscìo del velo di seta in quelle stanze del cielo di Praga.                                          Musiche di Vivaldi e di Marcello fra quelle stanze che grondano di storia. Un velo azzurro di seta si muove, leggero e frusciante, fra tiepide colonne di marmo rosato. Dietro una scia di profumo intenso, dolcissimo. Di gonne. Ori e splendori della Praga ricca, solenne e imperiale. Leggiadria di forme, sogno infinito: quella musica correva, tumultuosa e ammaliante, e apriva le porte di vasti saloni.                                             Qui vissero principi regnanti e imperatori. Quella musica fu scritta e suonata per loro. Suona ancora. Fantasmi di un tempo remoto si affacciano, guardinghi, alle pareti coi loro visi rossi e austeri. Ve ne è qualcuno dall’aspetto burbero. Così volle essere ricordato perché la sua effige, il suo sguardo fiero tramandassero la potenza e l’arroganza dell’impero.

Al Consiglio mondiale della pace

Alle ore 10.00 sono al palazzo dei congressi di Praga per la seduta inaugurale della Conferenza del Consiglio mondiale della Pace (WPC). Soliti discorsi. Chandra (l’indiano presidente uscente) si ripete, non dice nulla di nuovo. Da circa 30 anni è presidente del WPC ed è diventato monotono.                                         C’è un forte divario fra l’attuale politica estera sovietica e il modo vecchio di operare del WPC. Stavolta Chandra, da tempo dato per uscente, è uscito per davvero, ha lasciato l’incarico. Gli è subentrato un finlandese che ha manifestato intenzioni di cambiamento. Così com’è, il WPC non serve granché né all’Urss di Gorbaciov né alla causa della pace nel mondo.                                                                         Sto l’intera mattinata al palazzo dei congressi. Ne approfitto per salutare alcuni compagni, per scambiare con loro qualche opinione. Incontro il dr. Makki rappresentante dello Yemen del Nord. Parla italiano (ha studiato a Bologna) e lo scambio per un parlamentare che avevo conosciuto, tempo prima, a Vienna, in una conferenza parlamentare euro-araba. Mi dice che quello è suo fratello. Difatti gli somiglia. Oggi, il fratello (anche lui ha studiato a Bologna) è vicepresidente del Consiglio dei ministri dello Yemen del Nord.                                          L’informo che fra non molto andremo in visita nello Yemen del nord. Lui ne è felice e desidera incontrarci a Sana a. Parliamo della situazione politica e sociale dello Yemen del Sud, dopo il colpo di Stato contro Nasser Alì che si è rifugiato in esilio a Sana a.                                                                        Ritiene che il colpo sia stato organizzato da parte di un gruppo di potere solo per un’alternanza alla direzione del Paese.                                                                                   “Cosa vuole- mi disse- voi per cambiare governo fate le crisi parlamentari noi facciamo i colpi di stato”.       Politicamente nulla è cambiato ad Aden. Dice che gli etiopi volevano intervenire militarmente in favore di Alì attraverso lo Yemen del Nord e che loro si sono rifiutati di farli passare.

 

 

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