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 Home page > Attualità > Economia > 1919-1944 Parte prima

1919-1944 Parte prima

Ultimamente vanno di moda le ovvietà, come quelle cui ultimamente s’è lasciato andare il Nobel per l’economia Paul Krugman, il quale sostiene l’euro che non funziona: non funziona e basta. Krugman, va anche detto, è parte interessata (qualifica espressa assai giustamente dal prof. De Cecco, della Normale di Pisa), come altri osservatori anglo-americani, poiché, un euro solido e con la fiducia internazionale che gli spetta, tra l’altro, potrebbe dar luogo ad un mercato finanziario talmente grande da appannare sia New York che Londra. Krugmann, in tale aspetto è in buona compagnia, ma, malgrado il mal di pancia che la prospettiva procura all’America e al Regno Unito, non esiste altra alternativa se non quella di farlo funzionare. Il fondo da 750 miliardi di euro (cui participa anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) è il primo tassello della nuova governance.

1919-1944 Parte prima

Ultimamente, Krugman, s’è dato all’ovvio. E come coloro che partono da presupposti ovvi, giunge a conclusioni molto meno ovvie della semplicità delle analisi. Segno che tal genere di presupposti non sono esattamente ciò che serve a risolvere i problemi, ma a complicarli, ed anche parecchio.
 
Nel suo ultimo outlook, dopo un’analisi sulle politiche del lavoro improntate alla massima flessibilità, che non hanno condotto ai risultati sperati, come era ovvio che fosse da almeno cent’anni, ne deriva che l’adozione dell’euro, privando gli stati della politica del cambio, almeno all’interno dell’area, forse non è stata sensata.

É in buona compagnia; altri osservatori, direbbe il prof. De Cecco, quali parti interessate, sono giunti alla medesima conclusione, dopo analisi altrettanto risibili, senza sfiorare cause più pregnanti. Qui ne tentiamo qualcuna molto meno ovvia. Cominciamo dal ruolo tedesco nei rapporti di conversione fra le monete e l’euro. La Germania, sul tema, aveva un’esperienza invidiabile, derivante dalla riunificazione, condotta a difesa degli interessi della parte più ricca della nazione, per i quali, non senza ragioni, fece aggio il certo per l’incerto nella valutazione del cambio fra il marco occidentale e quello orientale. Si ritenne che sanzionare la bassa competitività delle regioni orientali adottando un cambio che la rifletteva, metteva in forse quella delle regioni occidentali. Si scelse, quindi, un cambio paritario per i prezzi delle esportazioni e i costi, cioè i salari, che distrusse quel poco di competitività della ex DDR, che primeggiava nelle esportazioni nell’ex blocco sovietico, che implosero. Inoltre, diversamente da quanto avrebbe voluto il governo Kohl, che dunque si piegò ai voleri della Bundesbank e ai suoi timori inflazionistici, le consistenze liquide della DDR, valutate in 191 mld di marchi (meno del 15% delle consistenze dell’Ovest), si cambiarono nel rapporto paritario per 66 mld, mentre i restanti 125 in un rapporto di 2:1, con una perdita di oltre 62 mld (criteri più restrittivi furono adottati per le consistenze da movimenti speculativi, in seguito a episodi che condussero il marco orientale in un rapporto di 7:1). Il tutto, infine, si blindò non dando rimborsi ai tedeschi dell’est sugli asset venduti, all’insegna dello slogan che gli investimenti, futuribili peraltro, compensavano la restituzione.

Da un lato, il cambio paritario distrusse la competitività della DDR, dall’altro, quello dimezzato, ne distrusse la ricchezza finanziaria, che inibì al popolo dell’est d’iniziare una qualunque attività, o ammodernare quelle esistenti, politiche affidate ai sussidi, che invariabilmente andavano a gruppi dell’ovest che beneficiarono per il 90% delle privatizzazioni (nel processo parte non cristallina la svolse la Treuhandanstalt, che arrivò a dare i soldi ad alcuni gruppi che si proponevano come acquirenti). Il mancato sviluppo delle regioni acquisite, dunque, si deve a tre ordini contemporanei di shock asimmetrici:

1-dimezzamento della ricchezza finanziaria;

2- nessun rimborso;

3- perdita della competitività residua.

Cioè esattamente ciò che serve per abbattere ogni velleità di sviluppo di qualunque paese. Da un lato le dichiarazioni di principio, dall’altro la realtà delle decisioni!

Quali le ragioni che le suggerirono? Due, e speculari: il timore di una massiccia emigrazione nell’ovest, per evitare la quale, ed in parallelo al cambio paritario, si decise l’aumento dei salari prima che arrivassero i famosi investimenti; secondo, il timore della delocalizzazione nell’est delle imprese occidentali. In ordine al primo, il risultato fu per tre quarti un fallimento; l’emigrazione avvenne, e interessò le generazioni più giovani e qualificate peraltro, senza contare gli aumenti populisti e demagogici dei salari, concessi sulla carta che inibirono gli investimenti; in ordine al secondo, il fallimento fu totale, essendo vero quello generale della delocalizzazione, ma, come subito ci si accorse, non riguardò la DDR, ma i paesi vicini, dove, tra l’altro, la fiscalità era un ulteriore fattore di attrazione, nel mentre la quotazione di quelle monete di certo non li impediva, anzi.

Tutto ciò, però, non ha risolto i problemi in quei paesi (sui quali tornerò), pur entrati a far parte della UE, dove l’occupazione è risibilmente aumentata, ma ha aggravato quelli dell’eurozona, Germania compresa, dove già si riflettono gli effetti di ritorno, a parte la più generale situazione finanziaria, resa fragile dagli interventi sulle banche, dove il governo vi ha speso in un anno qualcosa come 24 punti di Pil, mentre le spese di ricostruzione hanno lasciato praticamente inalterato non solo il debito ma la disoccupazione di gente che, al di là di ovvie questioni, non sapeva cose fosse, allargandone lo spettro nell’ovest per la delocalizzazione che si voleva evitare.

In Germania la domanda interna decresce da 15 anni, nel mentre il famoso bilancio colmo di virtù si deve al drenaggio fiscale, in particolare alle imposte indirette, virtù venute meno con il cennato intervento sulle banche, dove peraltro il problema non s’è risolto, come ovunque del resto.

Ammesso che al momento della conversione le parità riflettevano le reali condizioni di ciascun paese, dove tutti ricorsero a strategie contabili (chi per entrarvi, come fu il caso dell’Italia, chi per mantenere la competitività, come meditatamente sospetto per la Germania), occorre chiedersi da dove nascono i problemi europei.

C’è stato per caso lo sbaglio che qui si adombra nei rapporti di cambio fra le vecchie monete e l’euro? La Germania ha forse spuntato un cambio più competitivo nelle trattative? Il dubbio è d’obbligo, ma essendo oggi pura filosofia, passiamo ad altro, e cioè alle politiche economiche degli stati e delle banche centrali.

Da cosa è dipeso il progressivo divario di competitività dopo la conversione che si reputa di equilibrio? Fino a qual punto c’entra l’euro? É ovvio che l’impossibilità di aggiustare i cambi aumenta le defaillance delle politiche economiche e monetarie degli stati, ma con le monete (e tralascio che si muovono in un contesto dove non esiste una bussola sensata ed esterna, che è ciò che serve alla speculazione per accumulare miliardi non lavorati) l’effetto cambio accade dopo, non prima.

La svalutazione, peraltro da maneggiare con molta cura, taglia tutti i redditi, ma se la politica economica che l’ha resa possibile, non interviene, il beneficio dura lo spazio di un mattino: in altra sede ho riferito delle difficoltà insite negli aggiustamenti, che peraltro gli stati non fanno: ci si chiede quali aggiustamenti, se non quelli noti che stanno facendo tutti, stia operando il Regno Unito e i suoi premier piacioni!

Sotto l’aspetto dei cambi, dato il caso greco, così come il consiglio UE non aveva mezzi seri per controllare i criteri di convergenza, gli stati non si sono dotati di strumenti adeguati per controllare la conversioni dei prezzi, e, ciò che più importava, la loro dinamica, e men che meno quella dei redditi di settori che non partecipavano al commercio infracomunitario, né, per i vincoli dell’euro, che da riferimento esterno europeo, per il quale si fecero manovre da lacrime e sangue, diveniva interno, hanno cambiato atteggiamento sui conti pubblici e sulla efficienza della spesa, anzi, come ancora il caso greco insegna.

Paul krugman In ordine alle politiche monetarie, il disastro del ’29, riporta Galbraith, livellò le ricchezze più di quanto un decennio prima fece Lenin con la rivoluzione bolscevica. In questo, ed in parallelo alle politiche economiche, le banche centrali (in obbedienza ad atteggiamenti ideologici preesistenti alla moneta unica, e tralascio la decantata indipendenza), non si sono mai posti il problema dei valori del capitale, i cui movimenti hanno fatto la fortuna dei detentori di asset e il disastro dei conti pubblici quando i nodi son venuti al pettine, in ossequio non all’interesse generale, che imponeva un aumento di attività in parallelo ai debiti, di modo che il debito netto non aumentasse, ma a quello dei pochi, che non hanno pagato nulla, anzi.

Sotto tale aspetto, se non fosse per la misura, tutt’oggi imparagonabile, le politiche americane si sono riflesse in quelle europee, che ne hanno seguito verbo e criteri di gestione. Il tutto in un periodo in cui l’inflazione convenzionale dei prezzi era inesistente, con grande meraviglia di Greenspan e di tutti coloro che ancora non ne hanno compreso il meccanismo, che palesemente, non è congrua alla distribuzione dei redditi. La domanda cala ovunque, e nulla, seriamente, ne inverte il senso, nel mentre prezzi importanti, come quelli del petrolio, sono schizofrenici, senza che gli stati ritengano di intervenire. Il petrolio cala, ma il prezzo alla pompa aumenta.

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