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Spagna al voto: Ricardo Salmòn ci racconta una paese che vira di nuovo a destra

Ricardo Menendez Salmòn è considerato uno degli scrittori spagnoli di maggior talento. Il suo ultimo libro tradotto in Italia si chiama "Il Correttore" (Marcos y Marcos) è si svolge in un'unica giornata, quella dell'11 marzo 2011, raccontando quella di un correttore, appunto, che sta lavorando su I Demoni di Dostoevskij. L'11 marzo 2011 è un giorno particolare per gli spagnoli: quello degli attentati alle metro a Madrid.

Il libro è il racconto di quella mattina e soprattutto - ma non solo - una riflessione sulla politica e sulle bugie che si porta appresso. Bugie che permisero a Zapatero di battere Aznar, colpevole di aver mentito al paese, sapendo di mentire. Un Aznàr che a un certo punto di quella giornata "era un cadavere che prendeva congedio dal mondo dei vivi" e che "quando ebbe l'opportunità di resuscitare dalle sue ceneri, di risollevarsi dalle sue menzogne e riprendere a parlare come un essere vivo (...) scelse di non farlo". E sempre ne Il Correttore è il rapporto tra il linguaggio e la politica, sull'(ab)uso che questa ne fa, uno dei fili conduttori: "Corrompere la realtà attraverso il linguaggio, ottenere che il linguaggio affermi ciò che la realtà nega, è una delle massime conquiste del potere. La politica si tramuta così nell'arte di camuffare la menzogna".

Salmòn è un attento osservatore e critico della politica, appunto, e della società spagnola. Per questo motivo gli abbiamo fatto qualche domanda sulle elezioni che oggi, molto probabilmente, porteranno di nuovo le destre al Governo.

Nel tuo ultimo libro tradotto in Italia, Il correttore, racconti il giorno degli attentati alle metro, e soprattutto le bugie di Aznar, l’allora Primo Ministro che a causa di quelle bugie perse le elezioni. Tutti gli ultimi sondaggi danno Rajoy come vincitore. La Spagna è pronta per tornare a destra?
 
Dentro di me credo sia sempre troppo presto perché un governo di destra ritorni al potere. Ma è anche vero che la successione in Spagna nel 2004 non fu dovuto ai soliti motivi (affaticamento, stanchezza, caos programmatico), ma a un collegamento in appena 72 ore tra un evento eccezionale (gli attentati) e un infamia di potere (la lettura che il Partido Popular pretese di dare a quegli attentati). In realtà, la logica naturale della tendenza politica in Spagna avrebbe permesso che in questi ultimi otto anni sarebbe stata la destra a governare.
 
I mercati hanno fatto un sacco di vittime in questi ultimi mesi: Zapatero, Papandreu, Berlusconi. In Italia si parla di spread anche al supermercato. In questi giorni è stata dura anche per voi. Che idea ti sei fatto di questa crisi?
 
La cosa più perversa di questa crisi è che ha convertito la costellazione di significati che ruotano attorno alla parola economia in una ideologia. In una ideologia della paura, oserei dire. L’economia è oggi una istanza metafisica che si incarna in carne e sangue delle vittime. Intendo dire che il Mercato, la Banca, il Debito, tutte queste astrazioni dei mercati, si concretizzano nel licenziamento del lavoratore, nella famiglia intrappolata in un mondo di necessità autoimposte e nella sfiducia radicale tra le persone. L’economia oggi è una teologia laica, con le sue cose buone, quelle cattive, le recriminazioni, i suoi inferni e i suoi limbi. E sappiamo che nulla è più pericoloso dell’emergenza della metafisica. Perché in suo nome tutti gli eccessi sono ammessi.
 
In Grecia Papademos, in Italia Monti, tutti tecnocrati che hanno lavorato con le banche. E’ un merito di Zapatero (che ha deciso di dimettersi e indire nuove elezioni) se i vostri candidati sono ancora politici? O sarebbe stato meglio un tecnico come in Italia e in Grecia?
 
In Spagna, nei suoi governi, ci sono sempre stati tecnocrati. Basta ricordare i nomi di Solchaga, Boyer e Rato, figure legate alle banche. Il fatto che questi uomini non occupino la presidenza non impedisce che, da molto tempo, nella nostra politica nazionale, la parola del tecnico pesa tanto o più di quella del politico, dell’uomo della tribù, dell’uomo del partito. In realtà, ho la sensazione che il politico propone e il tecnico dispone. Quegli uomini nell’ombra, spesso di basso profilo, sono stati a lungo i piloti delle navi pubbliche delle nazioni. Per quanto riguarda Zapatero, le sue dimissioni e la decisione di indire nuove elezioni non rispondono proprio a un merito proprio quanto, piuttosto, al contesto sovrannazionale che oggi comanda tutta l’azione politica. La debacle di Zapatero in Spagna esemplifica perfettamente la prova che, al giorno d’oggi, è impossibile fare politica alle spalle di Bruxelles. E questo, di nuovo, ci colloca nel cammino dei tecnici. Papademos e Monti sono solo la punta dell’iceberg, la caduta definitiva di una maschera. Ho la sensazione che il vecchio modello di statista, che poteva incarnare un Kohl e un Mitterrand, ma anche Gonzalez in Spagna, è scomparso da tempo. Il carisma weberiano sembra che sopravviva solo nei trattati di sociologia politica.
 
Zapatero è stato il simbolo di un’era in Europa. Giovane, di sinistra, senza paura di riformare (almeno nel primo mandato). Perché è andato tutto perso? E’ colpa di crisi economica, disoccupazione e spread o c’è altro? Cosa ha sbagliato?
 
Ricordo che la mia prima visita in Italia coincise con l’ascesa della figura di Zapatero. L’entusiasmo generato fuori dalla Spagna era simile a quella che poi ha suscitato a livello globale, Obama, una sorta di speranza bianca della sinistra europea. Eppure io non riuscivo a comprendere il fervore dei miei amici italiani. Zapatero lo ha spazzato via la congiuntura economica, è vero, ma dal mio punto di vista si possono fare due critiche: la prima, che è stata negata per troppo tempo l’evidenza, quando il collasso della nostra economia e, soprattutto, il problema della disoccupazione sono stati pressanti, e la seconda, che si è seduto a tavola con i cannibali (Banche, Grossi Capitali, compresa la Chiesa cattolica, che lo Stato spagnolo continua a finanziare vergognosamente) e ha servito su un vassoio d’argento le conquiste del Welfare State in cambio, non di garanzie di un paese più giusto ed equo per la classe operaia, ma del mantenimento dei vantaggi e dei privilegi di questi cannibali.
 
Quali sono le cose buone che ha fatto e rimarranno?
 
In questi giorni circola in Spagna una battuta abbastanza sintomatica di questi otto anni di governo socialista. Ironicamente si dice che il più grande successo di questi anni di governo lo incarna Pere Navarro, direttore generale della sicurezza stradale e responsabile massimo per la drastica diminuzione del bilancio delle vittime di incidenti stradali in Spagna negli ultimi dieci anni. Lo cito come un sintomo dell’aria che si respira nel mio paese. Ho il sospetto che di questi otto anni rimarrà poco. I motivi? Che lo stesso governo socialista ha smantellato gran parte delle sue conquiste della legislatura 2004-2008, e che il futuro governo popolare smantellerà le poche rimaste, come la Legge sulla Dipendenza (Legge per la promozione dell’autonomia personale e la cura alle persone non autosufficienti e le famiglie ndr). La mia più grande paura adesso è che cosa accadrà con i due pilastri veramente democratici della società spagnola: una sanità pubblica universale e gratuita e il nostro sistema di istruzione pubblica.
 
Quella spagnola è una delle società che ha cercato con maggior forza di combattere il sistema economico e gli indignados sono stati un modello per i movimenti di tutto il mondo. Cosa ne pensi di questi movimenti (anche Occupy Wall Street) e credi che possano cambiare qualcosa?
 
Il movimento degli Indignados ha recuperato con coraggio e onestà la strada, il concetto di agora e discussione, la proposta di convertire la democrazia non in una mascherata che si rappresenta una volta ogni quattro anni, nel momento del voto, ma che si sviluppa ogni giorno nel quartiere, nella scuola, nello spirito associativo che lo anima. Il suo problema, tuttavia, che è il problema dello status quo del quale ci siamo dotati, è come trasformare questa proposta in un risultato pratico, tangibile, ma senza passare attraverso il processo della rappresentanza politica. Nel sollecitare l’astensione, esprimendo delusione per l’azione politica attraverso la scheda bianca o il voto nullo, il movimento favorisce il sistema bipartitico che governa in Spagna, che risulta sempre a beneficio dei grandi apparati di potere. Piaccia o no, questo fatto del voto in bianco o nullo ha un enorme valore simbolico ma uno scarso valore politico. Lo slogan «no somos a-políticos, somos a-partidistas» contiene una grande verità, il sentimento di una gran parte della società del mio paese, ma, mentre il sistema elettorale ha l’ultima parola nel disegnare la mappa politica della nostra società, quello può trasformarsi in una gridare al vento (in spagnolo Salmòn ha usato l’espressione “brindis al sol”, frase idiomatica di cui “gridare al vento” non è una traduzione letteraria).
 
Per OWS quasi 2000 scrittori hanno firmato una petizione. Quale ruolo possono avere gli scrittori in questo momento, semmai possono averne uno?
 
Ho sempre creduto che la letteratura, come forma di intervento sulla realtà così com’è, può contribuire a ciò che Spinoza considerava il fine ultimo del libero pensiero: la riforma dell’intelletto umano, una riforma che ci costringe a pensare da soli, senza la mediazione dalle autorità, e ci imponga di riconsiderare ciascuna delle verità apprese che ci dettano da subito. Diverso, invece, è come lo scrittore può articolare questo compito in un mondo, quello della propria letteratura, che forma parte di tutta quella rete di servilismo contro la quale la letteratura, per definizione, dovrebbe combattere.
 
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