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Figli? No, grazie, siamo precari

Ho 31 anni e una delle domande che mi fanno più spesso è: “Hai già un figlio?”.

Mi spiazzava, una volta. Ne avevo 28 e, in generale, mi pareva un’età giusta per potersi permettere la libertà di costruirsi una famiglia che comprendesse anche un bambino. Anzi, col senno di poi ho più volte pensato che qualche anno prima sarebbe stato anche meglio.

Ma il problema che mi ponevo (ci ponevamo) era lo stesso che mi pone chi mi fa quella domanda: “Vorrei anche io, ma senza stabilità, come si fa? Come manteniamo qualcuno se a stento manteniamo noi?”. E allora uno risponde che se aspettiamo una qual sorta di stabilità siamo una generazione destinata a non avere figli. Perché i figli, coi contratti a progetto, con le partite Iva, con le casse integrazioni, coi call center, come li fai? La risposta che do di solito, quindi, mi porta poi a mordermi la lingua, perché ognuno sa quali sono le proprie possibilità, i propri mezzi e anche la propria vera voglia.

Io l’ho fatto perché lo volevo, perché pur non avendo un indeterminato (cosa?) avevo una certa stabilità che mi aveva permesso di pensarci (stabilità che oggi, ancora di più, mi permette di pormi qualche problema in meno). Cercando di fare i conti senza dover pesare sulla famiglia, ché poi alla fine comunque una mano te la dà sempre, perché “Oh, noi siamo i nonni, fatti i fatti tuoi”.

Ma il problema è che l’obiezione è reale. Siamo una generazione che per gran parte è senza prospettive, né di lavoro, né di famiglia, né di realizzazione alcuna. Una di quelle cose che pare un luogo comune finché non ti guardi attorno e vedi Sergio che fa i salti mortali per pagare il mutuo (ed è il tuo unico amico che s’è arrischiato nell’avventura), perché spesso l’azienda non gli paga mesi interi del suo part time. E fa altro, certo, è bravissimo a fare altro, ma è super precario.

Poi c’è Marco, che dovreste conoscere: è intelligente, simpatico, ma soprattutto in gamba. Ha sempre avuto un lavoro a progetto, poi il progetto è finito. E c’è Marta, filosofa, che lavorava nel campo della comunicazione a Milano, poi ha deciso di scendere a Napoli e ora lotta strenuamente alla ricerca di un lavoro, e Bianca che dopo anni di ottimo lavoro in un giornale si ritrova cassaintegrata e incasinata. E potrei continuare guardandomi attorno. C’è Elisabetta che un lavoro ce l’ha ma è precario, e la maternità non è un lusso che può permettersi. Sono tutte persone reali (con nomi inventati), in carne ed ossa. Ma è banale anche dirlo.

Perché non c’è bisogno di leggere le statistiche sulla disoccupazione, sui figli che diminuiscono da qualche anno a questa parte (e se non ci fossero gli stranieri sarebbe una catastrofe), sui problemi delle nuove forme di lavoro. Sostituisco l’inchiostro alla carne.

Lottiamo contro una precarietà che è economica e diventerà affettiva (ché a lungo andare non è facile) in un cerchio che non fa fatica a chiudersi.

E allora penso che sono stato fortunato, di una fortuna che mi sono cercato, certo. Ora ringrazio ogni santo giorno il fatto di potermi godere mia figlia. Ma poi alzo la testa, mi guardo attorno e m’incazzo. E non posso farci niente.

E manco voi, lo so.

Foto: Flickr/DeanWhite

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