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Ricordando Paolo Borsellino e riflettendo su troppi suoi colleghi

La tragedia italiana non ha un solo colpevole. E’ il finale di una grande farsa collettiva che ha coinvolto tutta la nostra società e sono sempre quelli, da qualunque punto di vista la si guardi, gli ingredienti che l’hanno determinata: conformismo, servilismo e codardia. La ricetta per uscirne? Trovare dentro di noi quelle doti che Borsellino aveva: l'orgoglio e il coraggio. Essere tutti, a partire dai magistrati, delle persone serie.

Un amico, che vedo ogni volta che torno tra le mie montagne, è un poliziotto. E' mio coetaneo e per un paio d'anni, in gioventù, prestò servizio a Palermo dove fece parte della scorta di Paolo Borsellino. Di Borsellino ricorda l'umanità e il coraggio; la piena consapevolezza d'essere in serio pericolo ed il dispiacere per quei ragazzi o poco più (loro della scorta) che quel pericolo erano chiamati a condividere.

Ricorda le cene in compagnia della sua famiglia, con la signora Borsellino che preparava delle grandi spaghettate e invitava tutti a restare quando riaccompagnavano il giudice a casa tardi, la sera.

Il giudice era soprattutto, nei ricordi del mio amico, una persona seria. Un grande lavoratore che, uscito di casa, appunto pensava solo al proprio lavoro; un magistrato su cui nessuno poteva aver dubbi che, qualunque caso si sarebbe trovato di fronte, sarebbe andato fino in fondo.

Borsellino era indubbiamente un eroe, ma a renderlo ancora di più tale è l'ambiente in cui si trovò ad operare. Parlo di quello della nostra magistratura che, prodotto della nostra società, non è affatto più seria o in alcun modo migliore del resto del nostro sgarrupato paese. Le doti che il mio amico attribuisce a Borsellino sono quelle che, in un mondo ideale, vorremmo fossero d'ogni giudice; a condividerle, invece, è sempre stata ed è solo una minoranza (temo assai ristretta) della nostra magistratura.

Non conosco nessun segreto, non ho accesso ad alcuna informazione riservata, ma non ne servono per dire che la magistratura italiana, nella sua complessità non abbia fatto il proprio dovere. Basta la memoria dei miei lontani anni italiani e quella scritta, nero su bianco, nei bilanci dello Stato.

Brevissimi Gherardo Colombo, Tonino di Pietro e colleghi; eroi anche loro per il modo con cui, partendo da un piccolo caso di corruzione, hanno scoperchiato il verminaio che era arrivata ad essere la Prima Repubblica.

Che però la nostra classe politica d'allora fosse costituita da ladri (e il fatto che alcuni rubassero per il proprio partito non li rende meno ladri) e da loro complici era cosa stranota a tutti; di cui si era accorto benissimo anche il ragazzotto semianalfabeta che ero io allora.

Bastavano le compiaciute cronache "mondane" delle avventure romane dei giovani socialisti a farlo capire. Pubblicati con un certo compiacimento dai giornali, che vedevano in quei soggetti da galera i fulgidi rappresentanti di una via italiana alla post-modernità, i racconti della festa mobile socialista mi riempivano d'invidia (avevo 20 anni e in quelle feste girava tanto di quel che io vedevo davvero poco) ma mi lasciavano anche assai perplesso.

Ma come facevano, De Michelis e compagni, a permettersi quel tenore di vita col loro "modesto" stipendiuccio da parlamentari? La risposta era ovunque, attorno a me, anche nel mondo dell'edilizia che frequentavo in quegli anni.

La stecca, la mezza o chiamatela come volete, all'assessore per avere più in fretta una licenza di costruzione, per la quale magari si avevano tutti i diritti, era pratica che si vociferava fosse comune, anzi obbligatoria o quasi, tanto nell'industre Brianza in cui lavoravo ad inizio anni 80 quanto nel Veneto bianco-rosa in cui lavorai, poco prima di mani pulite, alla fine del decennio.

I malaffari della classe politica avvenivano ormai alla luce del sole; c'era, da parte dei suoi rappresentanti, la certezza quasi assoluta dell'impunità: qualunque cosa facessero nessuno avrebbe osato indagare su di loro o, nel caso ci avesse provato, sarebbe stato subito messo in condizioni di non nuocere dai suoi stessi colleghi.

Altro che "conflitto tra politica e giustizia".

La magistratura italiana, nel suo complesso, era succube di quella politica. I magistrati, come categoria, e questo dà ancor più valore all’eroismo di Falcone e Borsellino come al coraggio dei giudici di Mani Pulite, guardavano da un'altra parte, come i giornalisti del resto, mentre il Paese era saccheggiato. Preferivano il quieto vivere, si godevano i propri privilegi, lavoravano pochetto e lasciavano fare.

Esagero? L’unica altra spiegazione a quel che è avvenuto in quel decennio è che fossero, tutti o quasi, ciechi e sordi.

Oggi la situazione non mi pare affatto cambiata. L’arroganza dei politicanti è la stessa; gli abusi, grossomodo, i medesimi. Non ci si vanta più delle mazzette intascate, ma basta dare un occhiata ai costi della sanità siciliana, per fare un esempio eclatante, e vedere in quale stato siano gli ospedali di quella regione per capire quale debba essere l’andazzo.

Come allora le cronache dei giornali sono piene delle “imprese” dei pochi giudici che non guardano in faccia a nessuno. Delle poche dozzine di persone serie che si ostinano a fare, fino in fondo, il proprio dovere. Degli altri 9.000 o giù di lì magistrati che preferiscono il quieto vivere, che preferiscono evitare rogne, che di fronte ad un nuovo Mario Chiesa si affretterebbero a chiudere senza clamori il caso, non parla nessuno, ma sono loro la Magistratura.

Sono, prima ancora delle leggi fatte approvare dal peggior Governo di sempre per rendere più difficile il lavoro a quei pochi tra loro che vogliono davvero fare, i silenziosi garanti della sostanziale impunità di cui gode, ancora oggi, la classe politica.

Non ho idea di quali norme potrebbero facilitare il lavoro dei giudici (certo mi pare ridicolo che, come avviene oggi, ricorrendo in appello non si rischi di veder inasprita la propria pena; a questo punto ci si appella sempre, anche per una condanna minima che non comporta l’ingresso in carcere e il numero dei processi lievita inutilmente) e farò quel che posso (scrivere, in buona sostanza) per cercare d’oppormi a leggi che limitino le loro possibilità d’indagine, ma sono sicuro di una cosa: che nessuna legge può dare il coraggio a chi non ce l’ha e nessuna norma può restituire una spina dorsale a chi non l’ha mai avuta.

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