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Renzi e il senato alla francese

Nella sua incontenibile e pruriginosa voglia di riforme lo, Renzi si guarda in giro e alla cieca tira fuori dal cilindro l’ideona di una riforma del Senato alla francese.

Questa nuova e brillante proposta fa emergere due atteggiamenti contrastanti: il primo è quello della testa bassa sulle riforme, non ci sono santi che tengono, si devono fare! Il secondo consiste nell’assoluta mancanza di idee sul “come realizzarle”.

Il paese deve cambiare, il “come” è un dettaglio tanto trascurabile quanto lontano dalla portata intellettiva delle menti in azione! In entrambi i casi è dunque l’ottusità a fare da minimo comun denominatore, materia prima abbondantissima in questo frangente istituzionale.

Il palazzo del Lussemburgo (sede del Senato francese) è stato sempre la spina nel fianco della quinta Repubblica. All’inizio del millennio il Presidente Jospin lo definì un anacronismo, ed ora questo costosissimo e vecchio geronte istituzionale, mal sopportato dai francesi da più di mezzo secolo, è diventato un “perfetto esempio” di rinnovamento per Renzi.

Vediamo nel dettaglio il perché.

Il Senato francese si elegge per suffragio indiretto: ciò vuol dire che i senatori (in carica sei anni, ma fino al 2004 il mandato durava ben nove anni) vengono eletti da 150.000 grandi elettori scelti tra amministratori locali, regionali, dipartimentali e da membri dell’Assemblea Nazionale.

Sempre fino al 2004 il Senato veniva rinnovato per un terzo ogni tre anni, ma questo metodo risultava frammentario, oneroso e caotico quindi si è pensato di eleggere metà della camera sempre ogni tre anni. Col passar del tempo anche il numero di senatori è progressivamente aumentato in proporzione all’incremento demografico: se nel 2005 venivano eletti 321 senatori oggi se ne eleggono 348 (noi arriviamo solo a 315) ed ogni membro della camera alta costa allo stato francese circa 20.000 euro al mese.

Date queste premesse, che ci provocano inesorabilmente un terrificante brivido dietro la schiena, è lecito avanzare alcuni dubbi, ad esempio: visto il cambio a nostro sfavore sui costi della politica, quanto potrà mai arrivare a costare in Italia un Razzi eletto alla francese? I cosiddetti grandi elettori italiani da chi e con quale metodo verranno scelti? Quali garanzie democratiche potranno offrire, e gli interessi di chi andranno a fare? Già solo questi quesiti aprono prospettive inquietanti e l’eco della Marsigliese inizia a dissolversi rovinosamente in lontananza.

Ma come se tutto ciò non bastasse, ora è doveroso spendere una parola sui poteri del Senato francese così avremo un’opinione più esaustiva sull’inutilità della genialata di Gotor su benedizione di Renzi.

Secondo la costituzione della Quinta Repubblica, il Senato francese ha gli stessi identici poteri dell’Assemblea Nazionale; insieme a quest’ultima e al governo ratifica e propone leggi, e affinché un disegno possa esser promulgato deve esser approvato da entrambe le camere; in pratica l’alta camera transalpina è pressoché identica al nostro Senato. L’unica differenza consiste nella cosiddetta Commissione mista, cioè: se un determinato disegno di legge si arena in Senato (grande strumento di ostracismo da parte dei reazionari francesi), il governo, con l’ausilio della maggioranza che lo legittima nell’Assemblea Nazionale, può forzare il blocco e far passare la norma coartata (cosa che da noi si fa allegramente con il largo abuso della decretazione d’urgenza).

Insomma, il Senato francese non è altro che un enorme e costosissimo elemento di disturbo istituzionale che rallenta il processo legislativo esattamente come lo è in Italia, con la sola differenza che non è ad elezione diretta. Eppure, per il giovanissimo e ultrariformista Renzi, questo residuato dell’influenza gaullista nella nascita della Quinta Repubblica (realizzatasi quasi 56 anni fa) rappresenta un’avanguardia della cultura politica postmoderna.

E qui arriviamo alla domanda fondamentale: perché tale bizantinismo spacciato per modernizzazione? Perché proporre una riforma del senato che – a conti fatti – non solo non riforma un bel niente, ma che – nella sventurata ipotesi di un’attuazione – sarebbe addirittura in grado di complicare ulteriormente l’iter legislativo? A questo punto la nostra attenzione gravida di maligni sospetti non può che rivolgersi sull’unica differenza tra le due istituzioni, e cioè sul sistema elettivo.

A quanto pare il democraticissimo presidente del consiglio non ama particolarmente il suffragio universale. In entrambe le sue proposte, la prima partorita con Berlusconi – e Dio solo sa con quali indicibili dinamiche di accoppiamento – e adesso questa, prevedono l’elezione indiretta dei nostri senatori.

Sembra che Renzi voglia strappare agli elettori una Camera per offrirla in olocausto ad un sistema babelico di amministratori locali (figure che sappiamo di comprovata onestà, soggetti incliti e affidabilissimi, ne abbiamo prova l’ingente numero di inchieste giudiziarie che le vede sempre più coinvolti), però, allo stesso tempo, si è messo in testa di rottamare il titolo V della nostra costituzione che garantisce e realizza una maggiore autonomia degli enti locali.

E qui giungiamo ad un’apparente incongruenza, c’è un intoppo evidente che intorbidisce ancor più le acque: le due cose sembrano cozzare! Con la riforma del senato si offre maggior potere alle singole amministrazioni ma con la paventata cassazione del titolo V si ritorna ad un centralismo dello stato. Com’è possibile? Eppure sembra esserci un terrificante quanto fantascientifico nesso.

Da un lato, dunque, Renzi metterebbe parte considerevole del potere legislativo tra le mani di portaborse clientelari delle varie realtà territoriali, mentre dall’altro intende togliere agli enti locali la loro indipendenza economica e la loro autonomia amministrativa.

Tutto questo sistema – ovviamente frutto di menti tanto demoniache quanto malate – assume sempre più le fattezze di uno scambio: “A.A.A. Giovane sedicente rottamatore offre poteri legislativi in cambio della gestione statale dei fondi degli enti locali e delle singole amministrazioni.

Vive la France!

 

Foto: Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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