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Progetti partecipativi per raccontare il mondo

I progetti "partecipativi" in questi ultimi mesi e anni si sviluppano e si stanno sviluppando quasi quotidianamente, in Italia e soprattutto all’estero. Molti sono progetti giornalistici di testimonianza, che sono citizen sin dal finanziamento, rigorosamente crowdsourcing, ma spesso quel lato partecipativo, molto in voga in questo periodo, sposa progetti più “mainstream”.

Ha fatto molto discutere il progetto di Claudia Vago - conosciuta anche come @Tigella su twitter - “Manda Tigella a occupare Chicago!” in cui la blogger si propone di andare a seguire OccupyChicago dal 29 aprile all’8 maggio finanziandosi tramite il crowdsourcing (tramite la piattaforma “Produzioni dal basso”).
 
Il progetto è presentato in questo modo:
 
“Dopo aver seguito e raccontato in Rete fin dal suo nascere Occupy Wall Street è giunto il momento di andare sul posto e da lì assistere direttamente e raccontare cosa succede, partecipare alle assemblee tematiche e generali, vivere la quotidianità del movimento raccogliendo immagini, filmati, interviste.
L’obiettivo finale è la produzione di materiali multimediali che raccontino l’organizzazione del movimento Occupy, che rappresenta una discontinuità rispetto ai movimenti sociali dell’ultimo decennio, in termini di pratiche e obiettivi”.
 
Un progetto citizen, almeno nella modalità di finanziamento, di cui vedremo i frutti fra un paio di mesi. Claudia Vago era, inoltre, una delle ideatrici di “Yearinhashtag”, un progetto che ripercorre gli avvenimenti salienti del 2011 tramite gli hashtag, ovvero quelle parole chiave utilizzate nei tweet per far comprendere di cosa si sta parlando.
 
Un omaggio, quello del sito al “‘citizen journalist’, che spesso non è altro che “il manifestante” armato di smartphone e account su un social network e in altri casi è qualcuno che non può fisicamente essere presente ma da casa sua, con computer e connessione a internet, partecipa agli eventi in modo semplice ma fondamentale: raccontando quello che succede, raccogliendo notizie, informazioni, richieste, fotografie, video e rilanciandoli, amplificandoli, contribuendo a costruire la narrazione dell’evento”.
 
Per rimanere in Italia da segnalare ci sono due esperimenti di citizen journalism di videoinchiesta. C'è Cittadini Giornalisti, progetto con base in Campania, che prepara video inchieste (come quella sui "Veleni di Napoli Est") per "fare informazione d’inchiesta sulle diverse realtà territoriali grazie al supporto di cittadini, blogger e semplici frequentatori dei social network, in una logica che unisce crowdfunding e crowdsourching". Meno legato al locale è, invece, ZaLab, laboratorio di video inchiesta e documentari partecipativo con un occhio rivolto "a contesti interculturali e in situazioni di marginalità geografica e sociale". proprio ZeLab che ha prodotto un documentario di Stefano Liberti e Andrea Segre che si chiama "Mare Chiuso", ovvero la storia dei migranti africani in fuga dopo lo scoppio della guerra libica, raccontata dai testimoni:
 
Nel marzo 2011 con lo scoppio della guerra in Libia, tutto è cambiato. Migliaia di migranti africani sono scappati e tra questi anche rifugiati etiopi, eritrei e somali che erano stati precedentemente vittime dei respingimenti italiani e che si sono rifugiati nel campo UNHCR di Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati. Nel documentario sono loro, infatti, a raccontare in prima persona cosa vuol dire essere respinti; sono racconti di grande dolore e dignità, ricostruiti con precisione e consapevolezza. Sono quelle testimonianze dirette che ancora mancavano e che mettono in luce le violenze e le violazioni commesse dall'Italia ai danni di persone indifese, innocenti e in cerca di protezione.
 
Il crowdsourcing e la volontà di testimoniare una realtà difficile e sconosciuta ai più è anche alla base di Eyes and Ears Nuba, il progetto citizen di un gruppo di reporter intenzionati a far conoscere le atrocità che si perpetuano in Sudan, sulle montagne di Nuba. Il team di citizen reporter capitanato da Ryan Boyette “si dedica a informare la comunità internazionale e la popolazione del Sudan con un attendibile fonte d’informazione circa la guerra nel Southern Kordofan”. L’obiettivo, scrivono sul sito è quello di “accendere una luce sui fatti e la realtà di questo conflitto isolato”.
 
Ryan Boyette, racconta Nicholas Kristof sul New York Times, è un trentenne americano partito per il Sudan, più precisamente le Montagne di Nuba, nel 2003 tramite un’associazione di volontariato. La regione in cui si trova Boyette ha appoggiato il Sud Sudan durante la guerra civile rimanendo però al nord dopo la fine della guerra. La popolazione ha supportato un esercito locale che però ora è combattuto da quello ufficiale. Quando la situazione è peggiorata l’associazione di cui faceva parte Boyette gli aveva chiesto di abbandonare le montagne e tornare a casa, ma il ragazzo ha deciso di rimanere lì comunque e ha sposato una ragazza locale, Jazira. E così ha deciso di raccontare con foto e video assieme a un team di 14 citizen journalist le testimonianze delle atrocità perpetrate dal governo sudanese. E ha deciso di aprire Eyes and Ears Nuba finanziata tramite la piattaforma di crowdsourcing Kickstarter.
 
Il video del New York Times con la storia di Boyette lo trovate qui.
 
Altri portali nascono ogni giorno e si sviluppano. È il caso di Mosireen che, come riporta Ahram è “un media collettivo egiziano di filmaker e citizen journalists, (che) è diventato il canale Youtube no profit più visto di sempre in Egitto e il canale non profit nel mondo questo mese (gennaio 2012 ndr). Il gruppo, che ha prodotto video online solo da 4 mesi, colleziona filmati e testimonianze video da filmaker e persone che protestano e mettono questi video online”. Un progetto citizen dal cuore della rivolta araba, quindi, che utilizza sia le immagini dei filmaker della piattaforma che quello dei citizen journalist presenti nei posti “caldi” e che organizza workshop, corsi di formazione, conferenze etc. Un canale, insomma, che si somma all’enorme lavoro fatto sul web da tanti testimoni (diretti e non, che erano lì direttamente o che facevano “solo” da cassa di risonanza”).
 
Ha fatto molto discutere anche l’esperimento di due ragazzi americani che hanno varcato il confine turco per entrare in Siria. Mentre i giornalisti professionisti cercavano di raccontare quello che succedeva, morivano o cercavano di mettersi in salvo nei modi più disparati, questi due ragazzi entravano in Siria e facevano interviste nei campi profughi raccogliendo immagini e testimonianze. Un atteggiamento che a molti non è piaciuto, come riporta il Guardian che riporta alcuni giudizi severi nei confronti dei ragazzi.

 
Un altro progetto che ha fatto parlare di sé è @ReadMatter, progetto giornalistico che in soli 9 giorni, grazie alla piattaforma di crowdsourcing Kickstarter è riuscito nell’obiettivo di raggiungere l'obiettivo di 100 mila euro. Per dar vita a cosa? “Matter si focalizzerà nel fare una cosa, ma nel farla perfettamente” scrivono nella pagina dedicata al loro progetto. Come riassume bene Fabio Chiusi sul blog del Festival Internazionale di Giornalismo:
 
Un sito che pubblicherà un solo pezzo alla settimana, sui temi principali di tecnologia e scienza. Ma il livello di approfondimento non avrà nulla a che vedere con quello di norma reperibile sui siti del settore già in circolazione, capaci – accusano – di «scambiare un comunicato stampa per una notizia». Certo, «il buon giornalismo costa», scrivono i fondatori del progetto: per questo ogni singola storia avrà un prezzo di circa 99 centesimi.
 
Un progetto con ambizioni alte che fa del crowdsourcing la propria base economica. Ma il fattore citizen non sarà solo nel business model bensì anche nelle scelte editoriali. Continua Chiusi:
 
Ma saranno i lettori stessi a decidere le storie, facendo addirittura parte del board editoriale nel caso abbiano versato almeno 25 dollari per la causa. E, soprattutto, saranno loro i garanti dell’indipendenza degli articoli pubblicati – dato che il modello di business non si regge su pubblicità, ma sui loro versamenti (con 10 dollari si avranno i primi tre pezzi, con 50 i primi sei, fino a un abbonamento a vita per 1000 dollari).
 
 
 
Oltre al Guardian e al suo progetto di Open Journalism di cui tanto si parla in questi ultimi giorni, gli esempi che uniscono il giornalismo tradizionale al partecipativo non mancano.
 
C’è l’esperimento di Jay Rosen all’Huffington Post, “Off the bus”, blog citizen per raccontare la campagna elettorale americana, ad esempio, ma forse uno degli esperimenti più riusciti è quello della CNN. Il progetto di giornalismo partecipativo della tv americana si chiama iReport e da un mese ha festeggiato il milionesimo citizen reporter, permettendo anche alla CNN di avere un bacino di news e reporter da moltissime parti degli Stati Uniti e del mondo. Un portavoce della CNN l’ha denominato “l’esempio più esteso e attivo di piattaforma cj di qualunque media di informazione al mondo” e certamente lo è, almeno per ora. Una piattaforma enorme che, a detta di Lila King che lo gestisce, è composta da notizie che arrivano per il 50% dagli States e il restante 50 dal mondo intero.
 

 
Uno dei capisaldi del citizen « around the world » è e rimane senza dubbio il progetto GlobalVoice, una community di blogger e traduttori in tutto il mondo che fanno da cassa di risonanza per le “voci che solitamente non sentiamo nei media mainstream internazionali”. Un lavoro utilissimo e importante soprattutto quello di traduzione che permette di leggere i post in decine di lingue.
 
 

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