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Per una "rivoluzione culturale"

Ricordate? Un ministro del passato governo affermò solennemente che con la cultura non si mangia. Uno mica può andare alla buvette di Montecitorio e ordinare un panino alla Divina Commedia! Dichiarò più o meno così. Tra i tanti paradossi che affliggono il nostro bel Paese va annoverata la scarsa considerazione di cui gode la cultura. Ed è un paradosso perché l’Italia possiede il 70% del patrimonio artistico mondiale.

Sono stati tagliati i fondi destinati all’editoria, agli enti teatrali, alle accademie. E’ stata inaugurata una politica scolastica miope e dagli esiti prevedibilmente catastrofici. Ricordate quell’altro slogan molto alla moda negli anni passati? Quello delle tre “i” (Internet, Inglese, Impresa) che dovevano occupare il maggior numero di ore scolastiche tagliando le ore di Italiano, Latino e Greco?

Era un modo come un altro, concreto e barbaro, per affermare la cultura del “fare” su quella del “sapere”, la logica del profitto sul sentimento del bello, la spregiudicata ricerca del successo economico sulla ponderata edificazione dei valori morali. E qual è stato il risultato di tutto ciò? Lo abbiamo sotto gli occhi ogni giorno che entriamo in un’aula scolastica e ci imbattiamo in studenti demotivati.

Collezionano BlackBerry e smartphones come anni fa si collezionavano le figurine Panini, ma studiano pochissimo e malissimo. Perché? Perché sanno che è inutile. Tutto ciò che accade intorno a loro, dal festival di Sanremo alla pubblicazione on line degli stipendi dei boiardi di Stato, conferma che nel nostro Bel Paese ciò che conta per farsi strada nella vita è avere l’amicizia giusta al momento giusto. Inoltre, se si fa politica direttamente o per conto terzi le chance di successo aumentano di molto. Se poi si è incapaci di mettere in fila quattro parole senza incappare in strafalcioni sintattici ed evitando il turpiloquio, beh, in quel caso il traguardo è assicurato. Questo è quanto si vede in tv, si legge sui giornali e si ascolta per strada ed è un fardello che genera profonde crisi di sfiducia.

Ma qualcosa sta cambiando. Il più importante quotidiano economico nazionale, Il sole 24 ore, in questi giorni sta lanciando un mirabile manifesto programmatico, “Per una costituente della cultura”. L’iniziativa ha immediatamente raccolto migliaia di adesioni da parte degli esponenti di tutti i settori della cultura italiana, dalla letteratura, al cinema, alle arti visive, alla ricerca scientifica.

Si tratta, secondo la definizione dei redattori, di una “rivoluzione copernicana”. Infatti il principio da cui ri-partire sta proprio nel ribaltamento di quell’affermazione citata in apertura, “Con la cultura non si mangia”. E’ vero, invece, il contrario. Senza cultura non c’è sviluppo. Questa affermazione trova riscontri oggettivi in tutto il mondo. Perfino in società fortemente orientate verso una crescita economica esasperata e aggressiva, cioè fondata su valori antitetici rispetto a quelli tramandati dalla cultura, specialmente di matrice umanistica.

Un solo caso per tutti: Singapore. Dal 2008 ad oggi si propone su scala mondiale come una delle città stato che hanno investito di più nel settore della cultura, con richiami – guarda caso – al Rinascimento italiano. Ebbene, la rivoluzione copernicana consiste nel considerare la cultura italiana un motore, anzi “il motore” dello sviluppo.

E per cultura non si intende solamente la valorizzazione del patrimonio artistico posseduto: musei, monumenti storici, siti archeologici, tutti settori nei quali siamo ai primi posti nelle classifiche mondiali dell’UNESCO e che, a fronte di oculati investimenti statali, offrirebbero enormi opportunità di lavoro per i giovani in cerca di occupazione. Per cultura si intende anche la valorizzazione di capacità intellettuali come l’intuizione, l’autonomia, la creatività, la spontaneità, la memoria, il senso estetico, l’immaginazione… In altre parole, un investimento in cultura, specialmente nelle scuole, ma già a partire dai primi anni di vita dei bambini, migliorerebbe il profilo affettivo delle persone, la loro capacità di relazionarsi con gli altri e col patrimonio paesaggistico circostante, la capacità e la voglia di risolvere problemi, di fare ricerca, di apportare innovazione, di orientare scelte giuste per se stessi e per l’ambiente.

Detto brutalmente, insegnare l’arte a scuola, tramandare il senso del bello, attribuire la giusta importanza al sapere umanistico e scientifico potrebbe rappresentare la chiave di svolta per uscire da una crisi che, prima ancora di essere economica, è la crisi di fiducia nel futuro di una nazione dotata, paradossalmente, di un potenziale artistico culturale ricco come un caveau pieno di lingotti d’oro.

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