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Palestina e Iraq: quando il mondo non impara dai propri errori

La coatio ad repetendum dei politici di ieri e di oggi.


La storia non si ripete.
Semplicemente le sue leggi fondamentali sono immutabili nei secoli.
E’ il nostro ristretto, breve orizzonte di mortali, la nostra mancanza di umiltà, che ci fa sembrare uniche, irripetibili le nostre modeste vicende contemporanee, che sono a ben vedere governate da quelle leggi eterne.
 
E’ rabbrividente ad esempio la coatio ad repetendum degli esseri umani in genere, i soli esseri viventi, dice un detto portoghese, capaci di inciampare due volte nella stessa pietra, cioè gli unici a non imparare nulla dall’esperienza o dal passato o storia che dir si voglia, laddove un qualsiasi animale eviterà sempre di ripetere un’esperienza spiacevole .
 
Ancora più rabbrividente, per gli immani effetti collaterali, la coazione a ripetere degli uomini politici, la tenacia con cui non solo cinici e spietati dittatori, ma anche esponenti di nazioni democratiche, e loro occasionali compagni di viaggio, ripercorrono a testa bassa e senza indugi sentieri irti ed impervi già lastricati di vittime e sangue, annunciando (in buona e talvolta in mala fede) di inseguire obiettivi “virtuosi” che tuttavia, anziché approssimarsi, si allontano inesorabilmente all’orizzonte (la nota dinamica della “eterogenesi dei fini” formulata per la prima volta da Giovambattista Vico che la concepiva come “dei momentanei ritorni indietro" sulla strada verso le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, a cui nessuno più presta fede ).
 
Queste conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, per una strana nemesi del destino, sembrano affliggere soprattutto i fautori più accesi della cosiddetta “realpolilitik (ma “affliggere” non è forse il termine esatto: costoro infatti si distinguono, oltre che per l’insofferenza per ogni istanza etica o idealistica, anche per la totale insensibilità alle conseguenze impreviste e solitamente assai dolorose delle loro scelte).
 
Gli uomini politici americani sono da tempo in cima alla lista dei recidivi.
 
Un ormai classico deja vu o, se vogliamo, di testarda coazione a ripetere si verificò con l’escalation militare americana in Vietnam a partire dalla fine degli anni Cinquanta.
 
Gli Usa seguirono pari pari il copione dei francesi di pochi anni prima, andando incontro alla stessa sorte: impiegarono imponenti forze terrestri come se dovessero andare ad un improbabile scontro in campo aperto contro un nemico sfuggente come i guerriglieri vietcong, protetti da una impraticabile giungla. Risultato: la replica della disfatta francese di Dien Bien Fu (marzo-maggio 1954) e conseguente abbandono dell’Indocina.
 
Per inciso, tra le forze agli ordini del generale Giap nel ’54 c’erano uomini appartenenti a varie etnie soggette in patria ai colonialisti occidentali, come gli algerini che appena sei mesi dopo misero in pratica nella loro terra la lezione appresa in Vietnam scatenando contro i francesi la battaglia d’Algeri, durata ben otto anni, fino al provvidenziale intervento di De Gaulle, per l’ottusa resistenza di chi, more solito, nulla aveva appreso dalla batosta del ’54: ovvero che qualunque movimento di guerriglia che si muova in un contesto difficile a lui noto, quale la giungla vietnamita o l’intrico delle viuzze della casbah d’Algeri, è destinato alla lunga ad avere la meglio contro un esercito tradizionale.
 
Così fu già nei tempi biblici della lotta degli ebrei contro i cananei, si ripetè con la ribellione spagnola a Napoleone mai sconfitta in campo aperto e, più recentemente, con la tattica del mordi e fuggi dello sparuto contingente inglese all’inizio della guerra in Africa nella seconda guerra mondiale (sedicimila uomini che tennero in scacco i cinquecentomila italiani del generale Graziani fino a costringere i tedeschi ad intervenire in nostro soccorso con l’Afrika Korps di Rommel).
 
Poi è stato il turno dei Bush padre e figlio, capaci di tornare, a distanza di pochi anni, a mettere le mani nel vespaio iracheno, dove hanno finito per impantanare la maggiore potenza militare del mondo, lasciandole come unica chance quella di riuscire a venirne fuori senza perdere troppo la faccia.
 
Mentre scendeva il sipario sui suoi otto anni di presidenza, Bush figlio ci ha regalato laormai inutile pantomimadel pentimento tardivo, svelando alla rete televisiva Abc che la caccia alle armi di distruzione di massa è il più grande rammarico della mia presidenza" (ma anche Blair, il suo fido e determinato alleato, adesso che è ridisceso dall’Olimpo ove evidentemente c’è carenza di ossigeno e ci si inebria del nettare degli dei, si trasforma in un umile cacadubbi, quei dubbi che invece non hanno avuto né hanno certi commentatori, al solito più realisti del re nel loro furore ideologico).
 
Gli americani a questo punto potrebbero ripetergli la frase che pronunciò nel 1912 Karl Liebknecht contro il guerrafondaio kaiser Guglielmo II e la sua decisione di trascinare la Germania nella prima guerra mondiale , prodromo della seconda :  “Il nemico principale è nel nostro stesso paese”. 

Che è quanto pensano gli stessi americani: secondo un sondaggio della CBS del 2007 , il 51 per cento giudicava che la guerra in Irak avesse aumentato il numero dei terroristi in circolazione ( per il 21 per cento non aveva prodotto alcun risultato e solo il 17 per cento riteneva che avesse diminuito il numero dei terroristi).

Opinione condivisa persino dagli israeliani, oltre che da inglesi, canadesi e messicani: interpellati nel novembre 2006, avevano individuato in George W. Bush il nemico pubblico numero uno, più pericoloso e dannoso per la pace mondiale dei leader degli stati inseriti nel famoso "asse del male", l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il nordcoreano Kim Jong-Il, e secondo solo a ad Osama bin Laden.
 
A maggior ragione gli iracheni, che dal marzo 2003 a tutto dicembre 2008 hanno contato non meno di 90.000 morti civili, parecchi dei quali uccisi dagli uomini delle cosiddette private military corporations quali la Blackwater (per non parlare dei militari sotto diverse uniformi, americani compresi, o dei traumi post bellici, il danno economico, i profughi…), se interpellati, gli avrebbero dato senza dubbio la palma. 

Resta sempre valido l’antico detto (che rappresenta forse il più tragico paradosso della storia): se uccidi un uomo, sei un assassino; se ne uccidi migliaia o milioni, sei uno statista.
 
La pantomima bushiana ha avuto probabilmente per i nostri connazionali più anziani il sapore del dejà vu: allo stesso modo, non Mussolini, ma i suoi epigoni, i reduci di Salò, i nostalgici raccoltisi nel dopoguerra sotto le insegne del Movimento sociale, ammettevano fuor dai denti che sì, forse Mussolini aveva sbagliato ad entrare in guerra[1], fermo restando che tutto il resto del ventennio fosse stato perfetto e irreprensibile. Al che veniva naturale rispondere a costoro, ammesso e non concesso che avessero ragione: “ E scusate se è poco !” (l’errore ci era costato fra l’altro la bellezza di 450.000 morti, con un civile ogni cinque morti) .
 
Così, sentiamo risuonare l’eco sinistro di frasi analoghe, pronunciate in altri tempi e luoghi, anche nelle parole pronunciate dal ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni (una donna !) all’indomani del pesantissimo ukase israeliano su Gaza costato la vita, tra gli altri, ad oltre quattrocento bimbi palestinesi: “I bambini morti? Io ho la coscienza a posto". Ma come si tacitano facilmente, certe coscienze!
 
Ricapitoliamo la sequenza dei fatti. Nel settembre 2005 Israele lascia Gaza, dove poco più di ottomila coloni abitavano in case grandi e confortevoli mantenute coi ricchi sussidi dello Stato, mentre un milione e trecentomila palestinesi vivevano nella sporcizia, in mezzo ai rifiuti, in una miseria africana.
 
Probabilmente, Sharon si era reso conto dell’inutilità per Israele di mantenere a sue spese pochi coloni tra le rovine di Gaza, circondati dall’odio generale; meglio trasferirli nelle più fertili terre della West Bank, dove oltretutto il controllo di Israele è totale, grazie soprattutto ai collaborazionisti palestinesi armati e addestrati dagli USA. Nel gennaio dell’anno dopo i palestinesi votano in massa per la “parte sbagliata”, cioè per Hamas. Il 4 novembre 2008 Israele rompe la tregua conclusa nel luglio con Hamas, grazie alla mediazione egiziana, e compie un’incursione su Gaza che uccide sette palestinesi . Hamas risponde riprendendo a lanciare i suoi missili rudimentali.
 
A questo punto Israele attacca vantando il diritto di difendersi. Il che è giusto: uno Stato ha diritto di difendersi contro degli attacchi criminali, ma da ciò non segue che ha il diritto di farlo con la forza. I nazisti non avevano il diritto di usare la forza per difendersi dal terrorismo dei partigiani, l’assassinio di un funzionario dell’ambasciata tedesca a Parigi non giustifica la “notte dei cristalli" , ossia il pogrom condotto dai nazisti nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 in tutta la Germania in cui vennero uccise 91 persone, rase al suolo dal fuoco 267 sinagoghe, devastati 7500 negozi e circa 30 mila ebrei deportati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhause, così come il Bloody Sunday provocato dai soldati inglesi nella città irlandese di Derry il 30 gennaio 1972, quando il 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti aprì il fuoco contro una folla di manifestanti per i diritti civili, colpendone 26, non è giustificato dalle violenze dell’IRA.
 
A partire dal 27 dicembre Israele - che occupa dal 1967 tutta l’area circostante in barba alle varie risoluzioni dell’ONU - attacca da cielo, terra e mare (con caccia, elicotteri da combattimento, aerei teleguidati, navi da guerra, artiglieria, tank e quant’altro) l’area più popolosa della Terra dove si ammassano senza alcuna via di fuga 2500 persone a chilometro, metà delle quali hanno meno di 15 anni (in totale più di 750 mila bambini), già provate da diciotto mesi di blocco totale su cibo, medicine e combustibile, vietato dalla Convenzione di Ginevra. 
 
Inevitabilmente, è una carneficina di civili (Hamas cinicamente si vanta di aver avuto solo 58 caduti e sembra ignorare i 1550 morti civili). Non a caso Richard Falk, il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Occupati palestinesi, evoca il trattamento nazista degli ebrei polacchi. (Per inciso, il partito laburista del ministro della difesa israeliano Ehud Barak, che cercava con questa operazione “meriti” per le prossime elezioni, ha preso sì qualche seggio in più rispetto ai sondaggi, ma è stato ugualmente estromesso dal potere. Ecco dunque un’altra costante della storia: quando la sinistra insegue la destra sul suo stesso terreno, gli elettori preferiscono giustamente votare per l’originale, e non per la copia. Fra l’altro, a dimostrazione che la storia non ha mai insegnato niente a nessuno, è risaputo che i bombardamenti ottengono il solo risultato di compattare ancora di più la popolazione attorno ai suoi governanti, gli unici a poter portare soccorso: fu cosi durante la seconda guerra mondiale coi bombardamenti a tappeto degli Alleati sulle città tedesche, Dresda in primo luogo, nonché coi bombardamenti tedeschi sulle città inglesi).
 
Ora, è vero che Hamas è una colossale palla al piede del processo di pace (ma Hamas è un parto degli apprendisti stregoni americani che volevano indebolire Al Fatah), che la sua scelta di non riconoscere Israele è indifendibile, che i suoi missili su Israele sono un crimine ed una follia forse spiegabile solo con la disperazione, ma altrettanto indifendibile è trarne spunto per giustificare tutto quello che fa o che non fa Israele (ad esempio una decente proposta di pace, non la ratifica della bantustanizzazione in atto dei territori palestini tramite le colonie ebraiche, che è il massimo che saputo finora proporre) e dare tutte le colpe ad Hamas, probabilmente per inconfessabili motivi di ostilità preconcetta contro arabi e palestinesi in particolare (molto diffusi in tempi di presunta guerra di civiltà e xenofobia dilagante anche da noi).
 
Alcuni (per esempio Lorenzo Cremonini del Corsera) rimproverano poi ad Hamas di aver piazzato volutamente i suoi uomini a ridosso di case e palazzi (ma evidentemente anche di stazioni di polizia, campi profughi, sistemi idrici, ospedali, scuole compresa quella dell’ONU, etc, dato che anche questi obiettivi sono stati regolarmente bombardati), per suscitare la reazione di elicotteri e carri israeliani e consentirle di denunciare al mondo la morte di civili inermi (e sarebbe la stessa Hamas che fornisce servizi di assistenza sociosanitaria alla popolazione, ossia scuole, mense, ospedali, orfanotrofi ed altro, vera base della sua grande popolarità e del suo successo elettorale certificato da enti internazionali).

 
Più attendibile, per spiegare quant’è successo, quanto ha affermato un ex ufficiale dell’intelligence israeliana per il quale “in guerra, Hamas va considerata un tutt’uno, l’ala militare e quella sociale, per cui i suoi strumenti di controllo politico e sociale sono legittimi obiettivi quanto i nascondigli dei suoi missili”.

Del resto la stessa Livni ha ribadito che lo scopo di Israele (così come in Libano nel 2006 contro gli hezbollah) era una deterrenza a lungo termine, non solo infliggendo un pesante tributo di vittime ai militanti di Hamas, ma soprattutto facendo calare una duratura cappa di terrore sulla popolazione di Gaza, soprattutto i familiari e collaboratori dei militanti . Una simile logica “educativa” era alla base dell’attacco di Al Qaida all’America l’11 settembre, così come degli ukase nazisti sulla cittadina cecoslovacca di Lidice (completamente distrutta il 10 giugno 1942 per rappresaglia in seguito all’attentato delle forze partigiane ceche contro Reinhard Heydrich "Protettore del Reich" in Boemia e Moravia) o su quella francese di Oradour (642 vittime, tra cui 246 donne e 207 bambini rinchiusi in una chiesa poi data alle fiamme, in risposta alle iniziative della resistenza francese), ovvero della distruzione di Grozny ad opera di Putin e di molte altre operazioni analoghe.
 
Colpirne uno per educarne cento è anche un famoso detto di Mao Tze Tung ripreso dalle Brigate Rosse. 
 
Se sono questi i rappresentanti “moderati” di Israele, c’è poco da sperare (non ha avuto, la Livni, un attimo di resipiscenza , dopo tante immagini scioccanti di bambini massacrati che oltretutto non aiutano certo a migliorare l‘immagine di Israele, nonostante l’opportunità politica di rifarsi una verginità da moderata nel nuovo partito Kadima, lei che proviene dalle fila della destra israeliana, ed in particolare dall’entourage di quel Sharon che è il responsabile morale della strage di Sabra e Chatila del 17 settembre del 1982 (3000 persone, a maggioranza donne e bambini, massacrati da 400 carnefici scelti fra il fior fiore del falangismo, cioè la destra “cristiana” libanese, penetrati nei due campi profughi in accordo con le truppe israeliane dirette dall’allora Ministro della Difesa) .
 
Ma forse ha ragione Josè Samarago quando dice che Israele vive all’ombra dell’Olocausto aspettandosi di essere perdonato per tutto quello che fa (e chi in effetti non avrebbe un attimo di perplessità prima di criticare Israele, ripensando a quello che questo popolo ha subito ed alla necessità di evitare assolutamente che qualcuno possa profittarne per riaccendere i fuochi dell’antisemitismo, che non è che un modo di declinare la discriminazione razziale verso popoli interi che è sempre in agguato (ne sentiamo un eco ai giorni nostri, nei confronti ad esempio dei rumeni in Italia, anche loro tutti “congenitamente violenti” come in passato si diceva soprattutto degli albanesi).
 
Prima della Livni, un’altra donna, Madaleine Albright, Ministro degli Esteri dell’amministrazione Clinton, interpellata nel 1996 sui 5000 bambini irakeni uccisi ogni mese dell’embargo americano seguito alla prima guerra del Golfo, la definì con grande under statement "una scelta molto dura, ma pensiamo che ne valga la pena"! Forse la Livni ha studiato a questa scuola.
 
Viene in mente, a proposito della Livni e della Albright, la frase pronunciata dal colonnello Tibbes all’indomani dello sgancio dal suo Enola Gay (era il nome della madre!) della bomba atomica su Hiroshima (6 agosto 1945) che polverizzò all’istante 86.000 esseri umani: “Certo che ho visto i cinegiornali e quei visi e quei corpi dilaniati, anche di bambini, certo, ma cosa volete che vi dica, che mi sento io responsabile di quelle immagini atroci? Nossignore, grazie a Dio io la notte dormo sonni tranquilli”.
 
Frase ancora più sinistra se si riflette alle valutazioni di tanti storici sull’inutilità ai fini bellici di quella carneficina ( il 12 luglio l’imperatore giapponese aveva già chiesto alla Russia di fare da intermediaria per trattare la resa incondizionata e Truman ne era a conoscenza , come risulta dal suo diario autografo, reso pubblico dopo gli anni `70)[2]
 
Così il boia nazista Eichmann ( “un ometto da niente, terribilmente, banalmente, desolatamente “comune”, lo descrisse la Arendt) seguitò a ripetere durante il processo a Tel Aviv nel 1960 di “avere solo obbedito agli ordini" , organizzando il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento .
 
Per Marco Revelli, all’origine di questa insensibilità c’è il cosiddetto “paradigma fordista” , ossia il lavoro organizzato su basi scientifiche proprio del “secolo breve”: questi “ uomini (e donne) senza qualità” , dai cupi comandanti dello sterminio nazista alla squadriglia del colonnello Tibbets agli "uomini di marmo" che posarono le pietre dell’inferno staliniano, poterono compiere i loro crimini bestiali in circostanze talida impedirgli quasi di accorgersi o sentire di agire per il male, concependo il loro come un lavoro da catena di montaggio, con tempi e metodi da fabbrica, con orari d’ufficio, successione delle fasi di lavorazione, divisione dei compiti da rispettare meticolosamente: nient’altro che strumenti di un’organizzazione lavorativa che a Dachau utilizzava corpi umani anziché petrolio o ferro come materia prima, ed a Hiroshima un micidiale carico di morte da gestire come in un normale business.
 
Così, la Livni si concepisce evidentemente anche lei come un anello dell’inarrestabile, inossidabile ingranaggio, perverso ma ormai anche stucchevole, di azione e reazione in cui è precipitato da tempo il conflitto israelo-palestinese, dove tutti gli attori da una parte e dall’altra sembrano vittime di sé stessi, della loro irrefrenabile, insensata coatio ad repetendum (che, come spiega Freud, non è altro che una pulsione di morte, ossia una tendenza ancestrale di matrice autodistruttiva, il desiderio di ripetere al libitum esperienze spiacevoli con l’illusione di poterle finalmente controllare e rimuovere). 
 
La conclusione di Revelli è che il luogo genetico del "mostruoso" non sta tanto nel delirio dell’homo ideologicus, quanto nella pratica smodata e incapace di limiti dell’homo faber.
Conclusione forse azzardata, giacchè l’homo ideologicus s’è mostrato capace di crimini che ben possono stare a petto di quelli citati.
 
Così il machiavellico “fine che giustifica i mezzi” soggiace alla frase arcinota di Mussolini: (“Mi serve  qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace”) quando ordina il 10 giugno 1940 l’inutile e vigliacco attacco alla Francia, appena dodici giorni prima che questa firmi la pace con la Germania. O di Mao-Tze Tung quando, in piena guerra fredda, a chi gli chiedeva se non temesse un attacco con l’atomica che avrebbe potuto fare anche 500 milioni di vittime tra i cinesi, rispose: “Tanto me ne resterebbero altri 500 milioni”. 
 
 
…………
 
 
 
 
Naturalmente, il meccanismo della coazione a ripetere ha potuto operare grazie alla totale impunità che gli Stati nazionali hanno sempre garantito e continuano tuttora a garantire, per mal riposto nazionalismo, anche ai più compromessi tra i loro esponenti politici, impedendo la concreta operatività della corte penale internazionale e talvolta annunciando ufficialmente di non voler dar corso al trattato istitutivo del 2002 già firmato ( è il caso degli USA).
Cosicché finora le sentenze di quella corte hanno riguardato solo le piccole potenze come il Sudan del semisconosciuto Bashir ( verso il quale per giunta gli Stati membri sono sati esentati dal prendere iniziative quali il ritiro degli ambasciatori ), lasciando assolutamente intonsi gli esponenti delle maggiori potenze, come l’americano Bush per la guerra in Irak, l’ israeliano Peres per i fatti di Gaza, il russo Putin per i fatti ceceni, i leaders cinesi per i massacri in Tibet .
 
Eppure non resta che aggrapparsi alla flebile speranza che un giorno il principio di ingerenza umanitaria, ossia il contributo internazionale alla pace e alla sicurezza dei popoli, venga gestito e con efficacia anzitutto sul piano giuridico, col diritto cioè anziché con la forza come è stato fatto finora .
 
 


[1]L’unico errore che ha commesso”, li si sentiva dire, ma non mancavano di sottolineare anche il contributo a loro dire determinante alla sconfitta da parte dei cosiddetti, fantomatici “traditori”, ignorando ovviamente gli errori pacchiani del loro mentore, quello che faceva a meno del radar, inventato da un ingegnere milanese, che fra l’altro aveva una portata doppia di quello utilizzato dagli inglesi con effetti determinanti per le loro vittorie in mare , “ perché di notte ci vedono solo i gatti, o che rinunciava alle portaerei “ perché tutta l’Italia è una portaerei” , e via cazzeggiando di questo passo .
[2] Ma si trovano e troveranno sempre volenterosi laudatori di queste carneficine in nome della “realpolitik”, il termine alla page con cui costoro celano il loro cinismo senza limiti. Così fu realpolitik , secondo costoro, quella che spinse nel 1999 il neofita del potere, Massimo D’Alema, inebriato di tanta gloria inattesa, dovuta ad irrepetibili eventi quali l’inopinata caduta del governo Prodi per mano di un estremista veterostalinista come Bertinotti, a dare il suo assenso in qualità di capo del governo italiano perché il nostro territorio fosse utilizzato come base di partenza per gli aerei che andavano a bombardare i serbi del Kosovo.
Vediamo. Tutto comincia nel febbraio 1997 con le prime azioni dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) , definite atti terroristici dagli Stati Uniti, seguite dalla brutale repressione serba.
All’inizio dell’estate del 1998, l’Uck assume il controllo di circa il 40% della provincia, scatenando un’ulteriore, ancora più violenta reazione da parte delle forze di sicurezza e dei gruppi paramilitari serbi, che prendono di mira la popolazione civile. In quell’anno si conteranno 2000 vittime, per lo più albanesi Il 20 marzo 1999, in previsione degli imminenti bombardamenti NATO, si ritirano gli osservatori internazionali dell’OSCE ( l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e subito crescono a dismisura le atrocità, conseguenza prevedibilissima del ritiro e dei bombardamenti che tale ritiro annuncia, ed il numero di sfollati arriva in pochi giorni a quota 200.000. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1999, la Nato scatena la sua offensiva aerea contro la Jugoslavia destinata a durare settantotto giorni. Risultato ? Finisce il calvario degli albanesi del Kosovo e dei rifugiati che possono far ritorno nelle proprie case, per lo più distrutte, e comincia quello dei serbi e degli zingari del Kosovo a loro volta costretti ad abbandonare la provincia dopo aver perso tutto .
Domanda : se gli osservatori non fossero stati ritirati, e magari rinforzati, e fossero stati portati avanti gli sforzi diplomatici, magari alternati con sanzioni di solito assai efficaci come l’embargo sul petrolio , si sarebbe avuto un risultato migliore? Poiché la Nato ha scartato tale opzione, non lo sapremo mai, ma niente fa pensare che le atrocità e le fughe sarebbero ugualmente aumentate ed in quella misura, e che i civili serbi sarebbero stati vittima a loro volta di pulizia etnica ( ma forse per qualcuno i civili serbi non sono altrettanto degni di considerazione degli albanesi ). 
Tanto più che sul terreno c’erano due proposte di pace : l’ultimatum di Rambouillet, cui però in extremis furono aggiunti di soppiatto degli allegati che resero di fatto il rifiuto serbo ineluttabile , quasi a voler sabotare la pace , e la risoluzione della stessa Assemblea nazionale serba, rimasta praticamente segreta, che condannava il ritiro degli osservatori dell’Osce e chiedeva all’Onu e all’Osce di adoperarsi per una soluzione diplomatica attraverso negoziati "con la prospettiva di arrivare ad un accordo politico sulla sostanziale autonomia [del Kosovo], che garantisca uguali diritti a tutti i cittadini e a tutte le comunità etniche nel rispetto della Jugoslavia .
 In sostanza, sarebbe stato possibile avviare un vero ciclo di negoziati e non il disastroso diktat americano presentato a Milosevic alla conferenza di Rambouillet, e inviare un consistente numero di osservatori esterni capaci di proteggere sia i civili albanesi che i civili serbi . La Nato decise invece di rigettare le opzioni diplomatiche, che non erano affatto esaurite, e di lanciare una campagna militare che, come previsto, ha avuto terribili conseguenze per gli stessi albanesi del Kosovo che si voleva in teoria tutelare . Come spiega Chomsky, “ può darsi che l’uso della forza sia giustificato. Ma questo deve essere dimostrato”. E nel caso specifico, non è stato affatto dimostrato . Con buona pace della reapolitik accreditata a D’Alema , elogiato perché l’ideologia post-comunista non gli avrebbe fatto velo nella sua scelta interventista ( anche D’Alema , comunque, ha avuto dei ripensamenti , dichiarando il 24 marzo al “Riformista” che “bombardare Belgrado e le altre città serbe fu un errore”. Questi “errori” purtroppo hanno sempre un costo notevole in termini di vite umane.).
Diverso il discorso per l’Afghanistan . Dove l’uso della forza appare giustificato non solo dal diritto internazionale che prevede la rappresaglia ( nel caso specifico, i talebani avevano addestrato gli attentatori dell’undici settembre nei loro campi ), ma anche dai risultati ottenuti. Prima della guerra , lo zoccolo duro di Al Quaeda contava qui tremila uomini. Dopo la guerra, un migliaio sono stati catturati o uccisi dalle forze della Coalizione, altri mille sono fuggiti all’estero, il resto s’è rifugiato nel Waziristan , una terra arretrata dove non ci sono certo i mezzi per addestrare i futuri jiadisti come in Afghanistan.
Ma anche qui, se gli USA non la smettono di bombardare ed ammazzare i civili afghani ( è stata la prima preghiera di Karzai ad Obama appena insediato ) , i talebani potranno continuare ad additarli come “il vero nemico”.
 
 

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