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Omicidi, arresti e censura: l’anno nero dell’informazione

Che questo non dovesse essere un grande anno per i giornalisti in giro per il mondo è stato chiaro fin dai primi mesi, soprattutto gettando uno sguardo a quello che accadeva nellaSiria martoriata dalla guerra civile. In poche settimane abbiamo visto morire una delle più note inviate di guerra, Marie Colvin, poco prima era toccato al giornalista franceseGilles Jacquier e al corrispondente del NYTimes Anthony Shadid, oltre a una enorme quantità di citizen journalist, attivisti e netizen uccisi, arrestati e perseguitati. E l’anno non si sta chiudendo nel migliore dei modi con i tre giornalisti palestinesi uccisi durante un raid israeliano e il giornalista brasiliano Carvalho che non è arrivato a festeggiare il 2013.

Secondo l’ultimo report dell’International Press Institute i giornalisti morti nel 2012 sono 128 (ma la lista purtroppo sembra destinata a crescere), 38 dei quali solo in Siria(26 per il CPJ che reputa la Siria il luogo più pericoloso al mondo per i giornalisti) e 16 in Somalia, le due nazioni col numero più alto di giornalisti ammazzati, seguiti dal Messicocon 7 (5 solo nello stato di Veracruz) e 5 tra Filippine, Pakistan e Brasile. Quello di quest’anno è un record che speriamo non si alimenti di altri decessi da qui a fine mese. Nel 2011, sempre secondo l’IPI furono 102 e l’anno precedente 101, mentre nel 2009 furono 110. Dal 1997, anno in cui è nato l’IPI, solo il 2006, oltre a quelli citati, è l’anno in cui si è toccato i 100 morti.

La guerra ai giornalisti è ormai lanciata da tempo non solo dalla malavita (come i cartelli in Messico), ma anche dagli stessi governi che vedono in loro (e in chiunque cerchi di fare informazione) un pericolo per la tenuta dell’equilibrio di potere. Secondo il CPJ(ripreso da David Carr del NYTimes) almeno un terzo dei giornalisti morti dal 1992 sarebbero dovuti alla volontà dei governi o da forze paramilitari di mettere il silenziatore a chi potrebbe raccontare quello che succede in quei paesi. Ma proprio di ieri è lacontasempre del CPJ, di quelli imprigionati. I giornalisti messi dietro le sbarre con accuse di diffamazione o comunque di reati contro lo Stato sono 232 (al 1 dicembre), 53 in più rispetto al 2011.

A farla da padrona, in quest’altra classifica, non è più la Siria bensì la Turchia seguita da Iran e Cina con accuse che vanno sempre dal terrorismo, altradimento, all’eversione.

In Turchia, scrive sempre il CPJ, una dozzina di quei giornalisti sono curdi e spesso sono messi in carcere senza che le autorità accertino la differenza tra il “coprire” la notizia relativa, ad esempio, a gruppi fuorilegge, investigare su argomenti sensibili o favorire realmente il terrorismo e/o attività antisociali. Quarantacinque sono, invece, quelli detenuti in Iran, che ha applicato un giro di vite dopo le elezioni del 2009, mentre in Cina 19 detenuti su 32 sono tibetani o uiguri.

Una classifica che si può fare anche a seconda dei supporti su cui questi giornalisti scrivono. Circa la metà (118), infatti, lavorava prevalentemente sul web, seguiti da quelli su carta (77) poi su radio, tv e i filmaker.

Insomma, se la Turchia è il paese in cui è più facilmente essere messi in carcere (soprattutto se siete curdi), il paese più pericoloso per i giornalisti resta, comunque, senza dubbio la Siria come dicono i numeri e racconta in un lungo e interessante pezzol’American Journalism Review.

Ma se proprio non si riesce a zittirli ammazzandoli o mettendoli in prigione, c’è sempre lacensura a mettere i bastoni tra le ruote di chi cerca di dare e fare informazione, che siano professionisti o netizen e attivisti. Se migliorano giorno dopo giorno le tecnologie che permettono di bucare firewall o comunque aggirare la censura è anche vero, come sottolinea anche Morozov nel suo “L’ingenuità della rete”, che questa innovazione vale anche per i governi che la utilizzano per stringere sempre più il controllo del dissenso (riferito all’Iran post Rivoluzione verde, infatti, Morozov scrive ad esempio, che “Le autorità non rifiutavano certo la tecnologia; anzi, erano più che felici di godere dei suoi benefici”). E così capita di andare in carcere per un like su Facebook, come successo a due ragazze in India o ritrovarsi leggi ferree che mascherano leggi liberticide dietro un’immagine di guerra al cyberterrorismo, come succede negli Emirati Arabi, o essere accusati di apostasia, sempre per colpa di uno status su facebook, come successo al blogger yemenita Ali Qasem Al-Saidy (ma gli esempi sono un’infinità anche solo volendo restare agli ultimi mesi).

Una delle più importanti sfide dell’era digitale, quindi, è quella di trovare modi per difendere la libertà d’espressione, come scrive Foreign Policy, in una battaglia che mette contro cittadini e governi che “cercano di mettere dei limiti a ciò che è lecito dire e ciò che non lo è”. Reporters sans frontières, nel suo “piccolo”, qualche settimana fa ha cercato di ovviare mettendo a disposizione un sito, che ha chiamato We Fight Censorship, in cui pubblica articoli che sono stati censurati o che hanno portato a rappresaglie contro chi li ha scritti. Materiale che è accompagnato da una descrizione dell’autore e dal racconto del contesto in cui è nato ed è stato censurato. Per restare in Italia, invece, ci pensa Fabio Chiusi a raccogliere nel tumblr Digital Dissidence quelle che sono le notizie che hanno a che fare, appunto, con la lotta quotidiana che riguarda la dissidenza digitale.

Foto via Il Nichilista

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Renzo Riva (---.---.---.245) 17 dicembre 2012 03:10
    Renzo Riva

    Cosa direste se dico che dovremmo per prima preoccuparci della dis-informazione che vige nel vostro Paese italico?

    La confusione fa comodo a tutti perché ognuno può truccare le sue carte.
    Il risultato e visibile a tutti coloro che sanno come e dove guardare.
    .
    Immaginatevi poi a livello internazionale quali nefandezze possono fare!
    Libia docet

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