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Latitanti: catturarli è una questione di soldi

Soprannome: maresciallo dei telefoni. Ha arrestato i latitanti più pericolosi di Cosa nostra, da Provenzano ai Lo Piccolo, e oggi scrive un libro. Spiegando perché è sempre più difficile mettere le mani sui criminali in fuga 

E’ un siciliano di quelli che hanno scelto di combattere la mafia. E lo ha fatto, appena maggiorenne, entrando nella polizia di Stato. Da più di vent’anni fa parte di una delle squadre d’élite della questura di Palermo, la “catturandi”. Ed è stato, insieme a poche decine di suoi colleghi, protagonista di clamorosi successi negli scorsi anni. Dalla cattura dei leader del clan Vitale Fardazza nel partinicese, all’arresto di Bernardo “Binnu” Provenzano, fino alla colossale operazione Gotha e alla cattura di Salvatore e Sandro Lo Piccolo. I.M.D. - dietro questa sigla si nasconde l’identità del funzionario di polizia soprannominato dai propri colleghi e superiori “il maresciallo dei telefoni” - è oggi autore di un libro (Catturandi, Dario Flaccovio editore, in uscita a marzo) in cui le tecniche investigative e le vicende degli ultimi anni di lotta contro Cosa nostra vengono viste dall’interno. I.M.D. lo incontriamo nella redazione di left, con le copie del libro fresche di tipografia sul tavolo. «La catturandi di Palermo nasce alla fine degli anni Settanta, dopo la morte di Beppe Montana, all’epoca di Cassarà», racconta. Ma solo dopo le stragli del ’92 e del ’93 vengono investite quelle risorse che permetteranno le catture di “rilievo”.

Risorse. Alla fine di questo si parla: di soldi e uomini. «Perché un latitante investe enormi somme di denaro per garantirsi il suo stato, e se tu non investi più di lui per penetrare nel territorio dove si nasconde non riuscirai mai a prenderlo». Quasi una formula matematica. Più investi e più in alto puoi puntare.

Si tratta di somme impressionanti, che i vari boss con mandato di cattura sulle spalle investono in una fitta rete di autisti, guardiani, spalle, soldati. «Facciamo l’esempio del Lo Piccolo - racconta I.M.D. -. La quantità di denaro che entrava direttamente nelle casse della famiglia è quantificabile in quasi 40mila euro alla settimana. Questi, in un mese avevano a disposizione 160mila-170mila euro. A volte anche di più. Perché c’erano gli extra dei grossi traffici, per esempio quelli fatti con l’Olanda, che portavano introiti consistenti d’improvviso, oppure i grossi appalti come quelli della metanizzazione della città dei quali il 3 per cento arrivava nelle loro casse». In pratica i latitanti potevano disporre di circa 2 o 3 milioni di euro all’anno di liquidi per potersi curare la latitanza. E la domanda è inevitabile. Quanto deve investire lo Stato per poterli catturare? «Almeno il doppio. Perché il latitante non ha solo il denaro, ha anche gli appoggi logistici sul territorio; è ovviamente coperto. Invece lo Stato questi appoggi non li ha e l’unica possibilità di penetrare nel sistema di latitanza è intervenire con la strumentazione e la tecnologia».

Per l’arresto dei Lo Piccolo, avvenuto nel novembre 2007, sono stati impegnati 42 uomini della “catturandi” di Palermo, 24 ore al giorno. «I Lo Piccolo avevano possibilità immense, controllo assoluto del territorio. Potevano fare letteralmente qualsiasi cosa». E il lavoro, per un membro della “catturandi”, è sacrificio personale, a volte perfino economico. I.M.D. racconta, fra i tanti episodi, quello delle missioni finalizzate ad accompagnare nei vari uffici sparsi per l’Italia i collaboratori di giustizia. Anticipando con i propri fondi. Perché - e questo è un dato assolutamente sconosciuto ai più - i collaboratori di giustizia, prima di essere affidati al servizio protezione e gestione del ministero - e spesso ci vogliono mesi - sono responsabilità del reparto che ha effettuato l’arresto e ha raccolto l’intenzione di collaborare. E allora sono alberghi, aerei, spostamenti. Pagati di tasca propria. Spese anticipate che a volte non vengono rimborsate per mesi, se non addirittura per anni. E poi c’è la creatività che a volte, spesso, supplisce alla mancanza di appoggi sul territorio e di risorse.

«Quando eravamo sui Fardazza a Partinico, faccio questo esempio per chiarire che a volte siamo stati costretti a inventarci letteralmente di tutto per seguire uno o più latitanti, avevamo la necessità di controllare un portone dove noi sapevamo che un favoreggiatore di Vito Vitale usciva ed entrava. Non avendo la disponibilità di una telecamera, perché era impossibile posizionarla, abbiamo preso una Fiat Ritmo del padre di un mio collega, abbiamo fatto un buco col trapano nel bagagliaio e dentro ci abbiamo infilato un ispettore di polizia per quattro ore con la sua telecamerina a riprendere il portone. Poi, tirato fuori dal bagagliaio, per due giorni lo abbiamo dovuto “stirare” per farlo stare in piedi», e ride. Anche sulla vicenda Provenzano le difficoltà sono state enormi. Spesso gli uomini della “catturandi” si sono trovati a sostenere turni “h24”, 24 ore consecutive, con un binocolo e un sacco a pelo fornito dall’esercito (perché la polizia non ne dispone) in un buco su una montagna. Ore e ore di straordinari che per due anni consecutivi non sono stati pagati («e pensa che solo per la polizia l’ora di straordinario è pagata meno di quella ordinaria») e per farli erogare dall’amministrazione dello Stato è stato necessario che gli agenti scendessero in piazza con striscioni e cartelli. Gli straordinari sono fondamentali. Perché un agente di polizia mediamente prende 1.400 euro al mese. Anche i super specializzati come gli agenti della “catturandi” di Palermo.

Oggi l’attenzione è spostata su altri due latitanti. Matteo Messina Denaro, nel trapanese, e Domenico Raccuglia, a Palermo. «Non capisco questa sottovalutazione dello spessore di Raccuglia - afferma l’autore del libro -. Il “veterinario” (questo il suo soprannome), se vuole, si può prendere tutto senza bisogno di alcun triunvirato con Messina Denaro e qualcuno dei Riina o alleanze simili. E poi Messina Denaro è in difficoltà: quando ha provato ad allargarsi qualche schiaffo lo ha preso». Da Raccuglia, appunto. E perché, nonostante le grandi operazioni degli ultimi mesi, una proprio sul territorio della sua probabile latitanza (Borgetto), il “veterinario” non è stato preso? «Cosa nostra ha cambiato forma. Da una struttura verticistica è passata a rete satellitare. E questo, ovviamente ci complica la vita». Perché non sapete mai su chi per primo puntare? «Non solo questo. Perché abbiamo sempre più scarse risorse e dobbiamo sempre decidere dove e su chi indirizzarle. Se le risorse diminuiscono, diminuisce anche la prospettiva di azione. Se io prima facevo la mappatura della Sicilia, ora posso limitarmi a fare appena la mappatura di un quartiere. Se io prima potevo ambire a prendere Provenzano ora posso ambire solo a prendere un latitante che ha risorse minori investite sulla propria latitanza». E questo spiega, purtroppo, tante delle cose avvenute negli ultimi anni. ■



ANTICIPAZIONE dal numero di left in edicola il 27 febbraio

SCHEDA DEL LIBRO
a marzo in libreria
Gli “sbirri” a caccia
degli intoccabili

L’antimafia operativa raccontata da un poliziotto della “catturandi”, la sezione della Squadra mobile di Palermo che si occupa di intercettare, pedinare e stanare i più pericolosi latitanti. La lotta a Cosa nostra vista dall’interno delle forze dell’ordine, da un uomo che ha dedicato gran parte della sua vita ad “ascoltare” i boss e svela le tecniche investigative, le astuzie e le intuizioni, così come le difficoltà e i rischi di chi opera in un settore delicatissimo.

I.M.D., Catturandi, ed. Dario Flaccovio,
12 euro.



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