• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > L’attentatuni di Capaci. Palermo si risveglia, Falcone muore

L’attentatuni di Capaci.
Palermo si risveglia, Falcone muore

Palermo, 23 maggio 1992, ore 17.52. La Croma bianca guidata dal giudice Falcone viene spazzata via da una carica esplosiva piazzata all’altezza dello svincolo di Capaci. La terra trema. Gli effetti dell’esplosione stati così forti da essere registrati nei sismografi dell’Osservatorio geofisico di Agrigento. Quando sul luogo della strage arrivano i soccorsi, il giudice è ancora vivo e risponde con gli occhi agli stimoli. Sua moglie Francesca Morvillo respira ancora. 
 

Non appena la notizia si diffonde, nelle carceri siciliane i mafiosi si lasciano andare a celebrazioni di gioia. Al “Grand Hotel Ucciardone” si festeggia con pesce e champagne, a Termini Imerese i detenuti restano incollati agli schermi per non perdersi neanche un attimo della loro “vittoria”. Si canta e si festeggia fino a notte tarda, come nel 1982 quando la mafia aveva ucciso il generale Dalla Chiesa. Come nel 1982 la risposta del direttore del carcere a chi gli chiedeva conto di quanto stesse accadendo è: «Non potevamo tappargli la bocca».
 
Il giudice Falcone arriva agonizzante all’ospedale Civico di Palermo. I primi soccorsi gli vengono prestati da Andrea Vassallo, il medico che lo stesso magistrato aveva rinviato a giudizio nel maxiprocesso in quanto uomo vicino ai corleonesi.
 
Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, apprende la notizia restando impassibile dinanzi la sua finestra. Sa che la mafia uccide a Palermo per parlare a Roma. Conosce i motivi di quel “botto esterno”, e lo dice anche ai giudici che lo interrogano: «L’attentato in pregiudizio del dottor Giovanni Falcone è stato pilotato per impedire l’elezione dell’onorevole Andreotti a Presidente della Repubblica. Il mio ragionamento si sviluppa attraverso questi passaggi logici. Falcone poteva essere agevolmente ucciso a Roma, in quanto in questa città mi è capitato di incontrarlo senza scorta. Ricordo in particolare di averlo veduto in una via, quasi buia, da solo che camminava in una zona compresa tra Piazza Navona e piazza Campo de’ Fiori. Pertanto ritengo che Falcone potesse essere eliminato senza quel “teatro” (messo in scena a Capaci)».
 
Il “botto esterno” a Roma, l’attentatuni a Palermo. Gioacchino La Barbera, killer di mafia ne parla a telefono con il suo compare Nino Gioè: «Ma ti ricordi, dducu a Capaci? [...] In sostanza, dducu a Capaci, unni ci ficimu l’attentatuni». Palermo e Roma non utilizzano la stessa lingua ma sembrano capirsi alla perfezione.
 
Quell’esplosivo recuperato nel mese di marzo da Gaspare Spatuzza ha parlato al momento giusto. Era stato tirato su dal mare in tempo per compiere il suo dovere. I fusti carichi di tritolo erano stati custoditi in acqua, attaccati con delle funi ad un peschereccio ormeggiato a Porticello. È lì, nel più grande mercato del pesce della costa nord della regione, che ha inizio il cammino della bomba di Capaci.

Spatuzza vi arriva con una grossa macchina, come ha chiesto Fifetto Cannella, anch’egli uomo dei Graviano, e guarda il succedersi di pescherecci con distacco. Sa che lui, uomo di mafia, non dovrà mai salirvi per lavorarci. Guarda i pescatori cucire le reti, vede le loro gote segnate dal sale, sa che tra loro si conoscono tutti e che la sua presenza non può passare inosservata, ma sa anche che nessuno racconterà ciò che ha visto. Porticello è legata a Bagheria: il regno di Bernardo Provenzano.

È lì che il boss ha la sua villa. Spatuzza si sente sicuro, è consapevole che nessuno gli chiederà conto di quel groviglio di reti e materiale che esce dal mare e viene adagiato sul peschereccio. Non sa ancora a cosa servirà, obbedisce. Non deve fare troppe domande. Il suo mandamento ha un ruolo chiave negli equilibri di cosa nostra, ciò che gli è dato di sapere è il punto d’approdo del suo viaggio: una palazzina in via Ciprì, dove ha allestito una sorta di miniappartamento dotato anche di lavandino e doccia. Lì deve custodire e macinare con tranquillità l’esplosivo.
 
La mafia è abituata ad essere la sola a poter parlare a Palermo. Non in quel maggio. Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, Piazza della Magione è attraversata da un moto di rabbia. Lungo via della Neve, via Lungarini, Piazza San Francesco, i balconi diventano una distesa di lenzuola bianche. «Basta con la Mafia», «Basta con la mafia», «Basta con la mafia». Quella parola pronunciata fino ad allora a bassa voce, pende dai balconi della città, riempie i tetti e le radio; le strade in cui Falcone era cresciuto vomitano il loro odio verso i mafiosi e verso il sistema di connivenze che uccide la Sicilia.

Mentre Palermo si risveglia, Falcone muore in ospedale. Paolo Borsellino giunge in tempo per abbracciarlo, da vivo, un’ultima volta.

 


Questo racconto è un estratto del libro Novantadue, l'anno che cambiò l'Italia, curato da Marcello Ravveduto per Castelvecchi Editore, in libreria da oggi.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares