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Farmaci e Università: spending review, tra diritti e facoltà

Il Senato ha approvato la spending review. All'interno di questo provvedimento di cose importanti per il futuro del paese ce ne sono tante, molti provvedimenti, in modo diretto e indiretto, interessano la Pubblica Amministrazione e quindi si potrebbe credere che siamo sulla strada giusta; ma nella massa di questi, due in particolare, ci mettono per l'ennesima volta dinanzi al fatto che "affinché tutto cambi nulla deve cambiare". 

Ci riferiamo al passo indietro fatto dal Governo circa l'obbligo da parte dei medici di indicare nelle ricette non più solo un medicinale specifico, quanto il principio attivo da questo contenuto, in modo da poter incentivare l'acquisto dei farmaci generici in luogo di quelli per così dire "griffati", nell'ottica di consentire al malato di poter risparmiare sulle spese mediche che non vengono coperte dalla cassa mutua.

Levata di scudi da parte dei medici e delle case farmaceutiche che, sostanzialmente, hanno denunciato un attentato al diritto alla salute per mere questione economiche. Si è quindi deciso di mettere la classica pezza a colori: il medico deve sì indicare il principio attivo ma ha "facoltà" di indicare uno specifico medicinale chiarendo che non sarà sostituibile. E dunque? Dunque il Governo ha ceduto al potere forte delle case farmaceutiche e a meno che non vi sia qualche farmacista illuminato che abbia il coraggio di ammettere che due prodotti composti identicamente si equivalgono, al di là del prezzo, il cittadino sarà vincolato a quello che il mercato ha deciso di offrirgli. Il ragionamento è questo: se Tizio è malato e vuole guarire, deve affidarsi al sapere di un medico e attenersi a quanto questi gli prescrive. La malattia non dà luogo a facoltà ma a doveri.

Diverso il discorso per l'altro provvedimento che farà molto discutere. Non ora ma in autunno. Ci riferiamo a quanto previsto per le tasse universitarie le quali aumenteranno per i fuoricorso, ma non solo. Il provvedimento ieri approvato prevede tre scaglioni di aumento: del 25% per i fuoricorso con reddito familiare sotto i 90.000 euro lordi, del 50% con reddito tra 90.000 e 150.000 euro lordi e sino al 100% per redditi superiori al 150.000 euro lordi. Si è detto che il provvedimento ha come scopo quello di incentivare il termine degli studi, ma il vero scopo ultimo è un altro. Il molto più prosaico battere cassa. Anche qui il Governo ha fatto un poco a scarica barile perché l'introduzione di questi aumenti è prevista come "facoltà" da parte delle università, le quali, alle strette come sono, saranno quasi tutte tentate a introdurre gli aumenti.

Per i corsisti gli aumenti scatteranno solo per chi ha un reddito familiare oltre i 40.000 euro lordi annui. Sarebbe interessante però porre l'accento su quell'aggettivo che segue le cifre indicate dal Governo: "lordi". Questo aggettivo che sembra essere passato sotto tono è invece molto importante perché mette nero su bianco che quasi tutti gli studenti saranno interessati dagli aumenti e che questi, non incideranno solo sulle famiglie più benestanti ma ancora una volta sul ceto medio, perché è noto a tutti che ai fini ISEE, non interessano solo i redditi percepiti, ma tutto il patrimonio. Il principale effetto di questo provvedimento sarà che coloro i quali non potranno permettersi le rette rinunceranno agli studi e coloro i quali invece avranno una famiglia economicamente avvantaggiata, senza una seria riforma universitaria che segua gli studenti costantemente aiutandoli a terminare gli studi nel termine prestabilito, continueranno a essere fuoricorso.

In questo provvedimento è purtroppo ravvisabile una triste continuità con il Governo precedente per quel che riguarda l'alta considerazione in cui è tenuta la cultura e l'accesso ad essa. Per dirla alla Tremonti "Con la cultura non si mangia" ed è per questo che il diritto allo studio è implicitamente declassato a facoltà. 

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