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Commento di

su L'Islanda come Amleto. EU o non EU?


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13 ottobre 2009 15:13

Concordo col fatto che il discorso sia stato spostato dal suo vero scopo. Il tema centrale non è certo il dibattito sul nucleare, e neppure sull’idrogeno, né in Islanda né tantomeno in Italia. Mi è parso che un tema centrale sia piuttosto l’approcio culturale islandese ai moderni problemi climatici ed economici. L’Islanda è molto avanti (per i nostri parametri) in quelle che definiamo tecnologie "alternative", eppure la cultura islandese è tradizionalmente rigida, chiusa e conservatrice. Come mai?
L’Islanda è il paese più devastato d’Europa Occidentale (da un punto di vista dell’impatto antropico sull’ecosistema). Immagino le sarà capitato di osservare le grandi distese spoglie e semidesertiche dei bassopiani interni, frutto di secoli di pascolo, solcate a volte dalle sottili strisce verdi dei (commoventi) tentativi di reinstaurazione della cotica erbosa, oppure i numerosi conoidi alluvionali alla base dei solchi creati dall’erosione meteorica del suolo privato della copertura vegetale.
Quando i primi vichinghi (Norvegesi di lingua norrenica) arrivarono in Islanda, nell’VIII secolo, trovarono un ambiente disabitato, fertile e rigoglioso, ricco di faune e sopratutto di suoli fertili e profondi, fondamentali per l’agricoltura alle alte latitudini. Quasi certamente pensarono di essere stati molto fortunati, ed iniziarono ad avviare uno sfruttamento economico delle risorse dell’isola secondo la tradizione culturale norvegese, con allevamenti di bovini e di maiali (estremamente apprezzati dalle popolazioni norreniche). Tuttavia, essi non potevano rendersi conto che l’apparente relativa prosperità di cui godevano grazie alle risorse naturali si basava su un delicatissimo equilibrio sviluppatosi nel corso dei millenni, in uno degli ecosistemi più complessi e delicati del mondo. La prosperità delle prime colonie di agricoltori ed allevatori era infatti dipendente da due fattori, invisibili al momento: (1) l’instaurarsi dell’optimum climatico medievale (2) la presenza di suoli fertili di tessitura estremamente fine (< 0,06 cm), derivati perlopiù dall’alterazione di tephra accumulata per apporto eolico, ed evoluta lentissimamente nel corso degli ultimi 10.000 anni, quindi soggetti ad una fortissima erosione eolica/meteorica che divenne inarrestabile con la deforestazione operata dai primi islandesi.Nel giro di 50 anni l’isola divenne cronicamente soggetta a frane e smottamenti, più del 95% della copertura arborea sparì, ed entro 5 secoli dall’arrivo dei primi coloni la maggior parte del terreno fertile dell’isola era stato dilavato in mare dalle forti alluvioni causate dall’aumento di precipitazioni nella piccola età glaciale (1300 - 1860) combinato con la deforestazione e la rimozione del manto erboso. Nelle annate peggiori divenne impossibile persino la coltivazione sporadica dell’orzo e l’allevamento caprovino, e l’economia dell’Isola fu salvata solo dalla pesca e dall’importazione/esportazione (che avveniva solo tramite navi straniere per l’assenza di legno in loco).
In sostanza i vichinghi norvegesi si trovarono senza saperlo a gestire uno degli ecosistemi più difficili ed instabili al mondo, la cui cura dovette essere attentamente pianificata nel minimo dettaglio, pena il disastro economico-sociale. I pascoli furono dichiarati "terra pubblica", e concessi in sfruttamento temporaneamente e con rigide regole, e le greggi caprovine vennero addirittura razionate tra i possidenti. A seguito di ciò l’Islanda fu l’unica delle tre colonie "estreme" (Vinlandia, Groenlandia e Islanda) a resitere fino ai giorni nostri (e anche in uno stato di relativo benessere). L’eredità culturale di questi processi è chiaramente ravvisabile nella mentalità conservatrice e socialmente "rigida" che contraddistingue ancora adesso molti Islandesi.Questo è il primo motivo per cui trovo improprio parlare di demagogia riguardo alle politiche energetiche innovative dell’Isola, dove semmai troverebbe terreno più fertile una demagogia di tipo conservatore, come la storia dimostra.
Il secondo motivo riguarda l’insularità. Negli ultimi 30/40 anni, le scienze antropologiche (archeologia e linguistica in primis) hanno ampiamente dimostrato come nella maggior parte dei casi sia fondamentalmente improprio estendere un’analisi (specie se di tipo "processualista", come in questo caso) di un fenomeno culturale di carattere insulare ad una situazione più ampia ed interrelata come può essere la percezione culturale di determinate questioni (e in questo caso si parla di "energia" e non di nucleare specificamente) in una cultura di carattere continentale, come l’Italia. Tanto per fare un esempio, guardi i templi megalitici costruiti 5500 anni fa a Malta e si chieda perchè non è mai stato realizzato niente di simile nella ben più ricca penisola italiana, e trarrà buoni indizi anche su a cosa realmente potessero servire. La differenza fondamentale è quasi ovvia.
Ovviamente questo non vale se quello che si intende fare è ragionare dal punto di vista sincronico della moderna società globalizzata, ma è mia opinione che questo sia al di fuori delle reali premesse dell’articolo in questione che, trattando fondamentalmente dei dubbi e delle riserve degli islandesi ad entrare in un’Europa di cui (ancora di più in seguito alla crisi economica) hanno sempre più bisogno, ma che sentono come lontana, e fondamentalmente aliena alla vera natura dei (grandi) problemi ambientali che essi sono atavicamente preparati ad affrontare. Si tratta fondamentalmente dello scontro tra la mentalità locale, "specializzata" di una piccola isola con la mentalità comunitaria (e generalista) della "grande isola" europea. In altre parole, la questione del nucleare in Italia c’entra come i cavoli a merenda.
Il vero tema è l’Islanda, la sua immagine di sé e dell’Europa, e cosa noi possiamo imparare dal confronto con un popolo che se da un lato ha quasi sempre rifiutato ogni innovazione imposta dall’esterno, dall’altro ha sviluppato una mentalità sufficientemente aperta da finanziare ogni campo della ricerca da cui possano trarre elementi utili all’analisi comparativa del presente (come l’archeologia) o allo studio di nuove prospettive (come le energie alternative). Questo purtroppo accade in maniera molto minore in Italia, ma anche in Spagna, Francia, Inghilterra...

Il punto centrale del discorso è la dialettica tra micro e macro cosmo, tra scelte "locali" e "globali", tra scelte a breve, medio, e lungo termine, tra insularità e globalità, e mi pare un argomento già di per sé degno di ampie argomentazioni.

Se quello che le interessa è invece la (in)cultura mediatica del nostro paese, non vedo perchè non scrivere un articolo a parte, che, sono sicuro, riceverebbe molto interesse e relativi commenti.

Tiziano Fantuzzi
Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente
Università Ca’Foscari
Venezia


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