• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Ambiente > L’Islanda come Amleto. EU o non EU?

L’Islanda come Amleto. EU o non EU?

L’isola più remota del Vecchio Continente ha iniziato le pratiche per entrare nella Comunità Europea, Cosa comporterebbe questo suo ingresso, soprattutto a livello economico, nel panorama della EU?

Il 16 luglio 2009 sono iniziate in Islanda i negoziati che permetterebbero l’ingresso di quest’isola dell’estremo Nord nell’Unione Europea.

Dal punto di vista ambientale questo Paese, ad oggi guidato da una coalizione che include anche i Verdi, ha fatto e sta facendo molto: il 99,9% viene fornito da fonti rinnovabili, nel ’98 il Parlamento ha avviato una procedura per eliminare tutti i combustibili fossili dall’isola volto a ottenere l’utilizzo di mezzi di trasporto ad idrogeno e, entro il 2050, il governo prevede di riuscire ad utilizzare solo energie rinnovabili.

Anche in tema di sanità l’Islanda è promossa con il massimo dei voti: tutti i cittadini hanno diritto a servizi sanitari e sociali, per cui lo Stato eroga il 40% delle spese in bilancio, non stupisce quindi che il tasso di mortalità infantile sia tra i più bassi al mondo e l’aspettativa di vita sia di 80,5 anni.

Ma non è finita: l’analfabetismo non esiste e la scuola è gratuita fino ai 16 anni, gli Stati Uniti hanno chiuso l’ultima base militare nel 2006 e il Paese è uno dei pochissimi al mondo a non possedere un esercito.

La cultura è continuamente incentivata. L’ambiente viene tutelato in maniera quasi ossessiva. Il tasso di criminalità della capitale, Reykjavìk, è praticamente approssimabile a zero. Il tasso d’informatizzazione è massimo.

Chi non vorrebbe l’Islanda nell’Unione Europea? L’Islanda stessa.

La mozione con cui il Paese ha iniziato le pratiche d’entrata nell’UE è passata con 33 voti favorevoli contro 28 contrari. Perché? Per via delle norme sulla pesca.

Il Trattato di Roma del 1957 stabilisce che debba esserci un’unica politica riguardo alla pesca, ma applicare la stessa normativa ad un Paese che annovera la pesca tra tante altre risorse e ad un Paese che ha nella pesca uno dei maggiori mercati non darà sicuramente un unico risultato.

Quello che l’Islanda teme con l’applicazione del CFP, Common Fisheries Policy, è, sostanzialmente, il fatto che il possesso delle compagnie di pesca diventerebbe affare comune e, presto o tardi, una parte delle industrie di pesca islandesi diventerebbe proprietà di stranieri (soprattutto considerando che l’Islanda oggi è in bancarotta).

"La realtà è che le pescherie sono un’industria marginale in termini europei" spiega Quentin Bates, giornalista che ha lavorato su pescherecci sia islandesi che inglesi, va quindi da sé che le decisioni prese a Bruxelles sarebbero, nella maggioranza dei casi, sfavorevoli per l’Islanda, in cui la pesca ha un peso molto maggiore che in molti altri Paesi.

EU o non EU? Questo per l’Islanda, scissa tra l’orgoglio vichingo di essersi sempre organizzata come meglio riteneva e il desiderio di entrare in un sodalizio che potrebbe esserle favorevole per molti aspetti (pesca esclusa), è un problema di proporzioni amletiche.

Commenti all'articolo

  • Di Renzo Riva (---.---.---.28) 4 ottobre 2009 10:06
    Sull’idrogeno una campagna demagogica
    È demagogica la campagna sulla nuova economia islande­se ad idrogeno iniziata nell’an­no 1999 e che avrebbe dovuto nel volgere di un decennio equipaggiare tutte le automobi­li ed anche le navi da pesca con motori elettrici azionati da fuel-cell alimentati ad idroge­no.
    Ricordo pure che sul sito in­ternet della Casa Bianca, durante il primo mandato Bush (2001-2004), imperversavano i programmi per l’utilizzo dell’idrogeno (che ricordo non essere un combustibile bensì un vettore d’energia di altra fonte) con promesse di investi­menti fantastimiliardari nelle nuove tecnologie correlate sull’onda del "guru" mediatico Jeremy Rifkin.
    Oggi l’Islanda è un paese in bancarotta al pari degli Usa e più nessuno ricorda i program­mi sull’idrogeno.
    È da notare che l’idrogeno si poteva sviluppare conveniente­mente solo col procedimento di termoelettrolisi e che può esse­re convenientemente ottenuto solo con l’energia termica ed elettrica di fonte nucleare.Spero che la nuovo primo ministro islandese non venga ricordata solo per la sua di­chiarata omosessualità bensì per aver messo ordine nella "pazzia" collettiva generatasi nel suo Paese nello scorso fine secolo.

     

    Renzo Riva
    Comitato italiano rilancio nucleare - Buja (Udine)


    Il Gazzettino

    Mercoledì 4 Febbraio 2009
     
    il quotidiano del NordEst
     
    LA PAROLA AI LETTORI
     
    Pagina 11 (PG11)
     



    Oggi si devono dare risposte puntuali e non risposte evasive.
    Continuare poi con considerazioni capziose e fuovianti quando non fossero pure strumentali è da irresponsabili.

    Ricordo a tutti che le piccole-medie imprese, strozzate da i costi impropri fra i quali quelli dell’energia, stanno delocalizzando all’estero oppure nel meridione d’Italia dove c’è illegalità diffusa: leggi lavoro nero, evasasione fiscale e altro e questo dà la misura di cosa potremo attenderci per il futuro.

     

    Irresponsabili di tutto il Mondo unitevi!

    Il futuro senza energia economica ed abbondante riproporrà forme di schiavitù nuove.
    Dico alle “anime belle” che l’abolizione della schiavitù fu possibile quando l’energia muscolare fu sostituita e la rivoluzione industriale la permise con l’energia meccanica ottenuta dalle caldaie a vapore alimentate dal carbone.

    Senza energia economica ed abbondante scordatevi la

    DEMOCRAZIA

    come oggi viene intesa.

     

    COS’È L’ E N E R G I A?
    Energia è la capacità di svolgere lavoro, nello specifico lavoro meccanico. L’energia trasformata in lavoro meccanico si concretizza in beni di consumo e in servizi, in definitiva in benessere. Maggiore è la quantità d’energia fruibile a basso costo, maggiore è la quantità di lavoro meccanico, beni e servizi, grazie ad essa fruibili, in definitiva maggiore è l’opulenza d’una società,
    Come si fa ad avere un’idea a “misura d’uomo” della quantità d’energia che oggi utilizziamo?
    Facciamo riferimento proprio all’uomo, la cui potenza media, sotto sforzo protratto, è di un decimo di cavallo, pari a circa 75 Watt, ovvero la potenza assorbita da una lampadina tradizionale di media potenza.
    Per azionare un moderno ferro da stiro di 1000 Watt (W) si dovrebbe impiegare l’energia di almeno 13 uomini; andare in giro con una vettura di media potenza (70 CV) è come farsi scorazzare da una portantina sorretta da 700 schiavi. Una cosa impensabile persino per il più folle e megalomane degli imperatori romani.

    L’importanza dell’energia in una società moderna
    Fu l’introduzione del cavallo, al traino dei carrelli prima spinti dall’uomo, nelle miniere inglesi di carbone, che, aumentando la produttività per addetto e di conseguenza riducendo i costi del chilogrammo di carbone, rese possibile la prima rivoluzione industriale, consentendo l’impiego e la diffusione delle prime macchine termiche negli opifici.
    Il lavoro meccanico a costi competitivi che si sommava a quello manuale dell’uomo consentiva di accrescere la produzione di beni ed i consumi, di produrre maggiore ricchezza con beneficio di tutti, anche se all’epoca si organizzò un movimento tipo “no global” che si opponeva alla diffusione delle macchine, divenuto famoso con il nome di luddismo.

    RISORSE NATURALI DI COMBUSTIBILI
    Fonte……………………………anni
    Petrolio……………………………40
    Gas………………………………..50
    Carbone…………………………200
    Uranio…………………………..200
    Lignite………………………….300
    Uranio in surgeneratori……20.000
    Uranio e torio in surgeneratori …infinito

    Per quanto concerne le riserve stimate di combustibili fossili, va fatto presente che lo sfruttamento di riserve non convenzionali di combustibili fossili (giacimenti dei fondi oceanici, scisti bituminosi, idrati di metano) potrebbe elevare di diverse centinaia d’anni l’attuale disponibilità dalle riserve convenzionali, anche se va detto che lo sfruttamento dei giacimenti non convenzionali pone problemi severi sia di carattere ambientale che di costi. Quanto all’uranio, questo elemento può estrarsi, ma ad un costo sino a 10 volte quello attuale d’estrazione, da giacimenti convenzionali, anche dall’acqua marina che ne contiene in concentrazioni di circa 3 ppb (parti per miliardo). C’è però da notare che l’impiego di reattori di nuova generazione porterà la durata delle riserve d’uranio a 20.000 anni.

    Le risorse naturali d’Uranio
    Le riserve accertate d’Uranio sono oggi più ricche in potenzialità energetica di quelle petrolifere, benché siano state finora meno investigate. I Giapponesi studiano l’estrazione dall’acqua del mare… cosa possibile e che darebbe accesso a quantità ancora più significative, ma con un prezzo del kg di Uranio molto più elevato dell’attuale.
    In certe regioni si trova Uranio nel minerale in natura fino al 50% di purezza (per esempio Cigar lake in Canada).

    Si dimostra che al raddoppio dei prezzi dei vari combustibili risulterebbe che l’aumento percentuale del prezzo del kWhe (chilowattora elettrico) prodotto è pari a:

    Nucleare………….. 9%
    Carbone…………. 31%
    Gas…………………66%

  • Di Diana Sprega (---.---.---.39) 4 ottobre 2009 21:46

    Sul sito del Consiglio Regionale del Veneto c’è un dossier dedicato all’idrogeno in cui l’Islanda è abbondantemente citata. Cercherò di riassumere brevemente e non mancherò d’indicare ulteriori fonti alla fine del mio intervento.
    L’idrogeno come combustibile sintetico è stato prodotto tramite le enrgie rinnovabili; è stata l’Università d’Islanda, tramite forti collaborazioni internazionali, ad occuparsi degli studi.
    Io in Islanda ho visto distributori di idrogeno e macchine elettriche, quindi, se mi permette, non sono solo parole chimeriche su un futuro lontanissimo. Se non ho capito male lei sostiene che l’idrogeno sia producibile convenientemente solo tramite energia nucleare; ci terrei a precisare che la produzione d’idrogeno è sì subordinata alla disponibilità di energia a basso costo ma che questa produzione è ricavabile sia dal nucleare che dalle energie rinnovabili
    Il primo distributore, comunque, è stato inaugurato il 24 aprile del 2003 e l’Islanda non è andata in bancarotta a causa sua.
    Anche a New York la Shell ha aperto alcuni distributori.
    Tolto l’idrogeno vorrei che si considerasse che l’Islanda utilizza già le risorse rinnovabili, non a caso in molti hotel l’acqua calda sa di zolfo.

    "Towards a Sustainable Hydrogen Economy" Ministero dell’Industria e del Commercio d’Islanda
    Consiglio Regionale del Veneto, Settima Commissione
    The Reykjavìk Grapevine
    http: //it.encarta.msn.com
    http://europa.eu/index_it.

    • Di Renzo Riva (---.---.---.96) 11 ottobre 2009 17:51

      Cara Signora Diana,
      Segua il filo del discorso e poi mi dirà se le sue soluzioni sono dei pannicelli caldi solo per alcuni grazie ai contributi-tasse (carbon-tax e oneri di sistema sulle bollette elettriche) che pagano tutti i cittadini.

      Mandi,

      Renzo Riva
      Via Avilla, 12
      33030 Buja - UD

      [email protected]
      349.3464656


      Pubblicato sul forum da "La Stampa"
      http://forum.radicali.it/content/nucleare-no-grazie#comment-657753 <http://forum.radicali.it/content/nucleare-no-grazie#comment-657753>

      "La Stampa", 10 Ottobre 2009, cronaca di Vercelli

      INCONTRO. CRITICHE AI GOVERNI
      “Nucleare nocivo”. I Radicali vercellesi ribadiscono il no

      La tappa in provincia del fisico francese Bernard Laponche
       Il nucleare? Soltanto una falsa, e pericolosa, alternativa. Ne sono convinti, da anni, i Radicali, che tornano ad affrontare il tema alla luce delle ultime decisioni del governo, che riguardano da vicino anche il nostro territorio. Così, fra le tante tappe italiane del suo tour, il fisico francese Bernard Laponche ha inserito ieri anche Vercelli. Accompagnato dal presidente dei Radicali Italiani Bruno Mellano, dal vice presidente del comitato nazionale Radicali Giulio Manfredi e dalla coordinatrice provinciale Roswitha Flaibani, Laponche, economista dell’energia per molti anni consulente del governo francese, ha illustrato in una conferenza stampa i motivi di tutti coloro che sostengono con forza il «no» al nucleare.
      «I governi - ha esordito Laponche - prendono decisioni su un tema di cui i cittadini sanno poco o nulla. Da sempre legato al suo uso militare, il nucleare è sempre stato vissuto come un argomento inaccessibile alla massa, quasi segreto. Un po’ come l’uranio, di cui nessuno parla ma che è alla base di qualsiasi discorso sul nucleare. Ma non è un segreto per nessuno che il nucleare civile di cui si parla oggi è il medesimo di quello militare degli anni Cinquanta». Al centro delle osservazioni del fisico francese, relatore in questi giorni anche a Novara e Milano, i presunti benefici economici ed energetici di questa energia: «La Francia è il paese con la maggior presenza di nucleare in Europa, eppure il suo consumo di petrolio è superiore a quello di Germania, Inghilterra e Italia. E la sua emissione di gas a effetto serra di poco inferiore. In Italia, poi, il consumo finale di energia nucleare dovrebbe essere il 4,5 per cento dell’energia totale: vale la pena correre tanti rischi per una percentuale simile? \

       
      Questo il mio intervento

      Che ne sanno i cittadini della tecnica dei trapianti?
      Eppure in caso di bisogno chiedono di essere sottoposti a trapianto e pure s’incazzano con i loro simili se non "muoiono" per avere a disposizione un organo.
       
      Dice poi Monsieur Bernard Laponche:
      In Italia, poi, il consumo finale di energia nucleare dovrebbe essere il 4,5 per cento dell’energia totale: vale la pena correre tanti rischi per una percentuale simile? \

      Ma cosa dice? il 4,5% si riferisce a ciò che oggi l’Italia importa dall’elettronucleare francese che attualmente ammonta al 13% del fabbisogno elettrico italiano che a sua volta è il 4,66% del consumo totale d’energia italiana.
      Attualmente i consumi d’energia sono così distribuiti:

      1/3 Elettrici
      1/3 Trasporti
      1/3 Usi Civili e industriali non elettrici.

      Se le affermazioni riportate dalla Stampa del 10.10.2009 sono vere allora il titolo di COGLIONE va a Monsieur Bernard Laponche altrimenti al giornalista estensore dell’articolo.

      Ecco la dimostrazione del servizio INCIVILE di certa Stampa.
      Anzi l’Italia avrebbe bisogno che la fonte nucleare fornisse il 45% del suo fabbisogno elettrico; ciò significa in termini di fabbisogno d’energia sul totale dei consumi il 15%.

      Povera Italia con questa libera Stampa.

      Mandi,

      Renzo Riva
      Via Avilla, 12
      33030 Buja - UD

      [email protected]
      349.3464656


      Il prof. Franco Battaglia mi scrive in proposito

      Dunque vediamo...

      Se non vale la pena imbarcarsi col nuke perché soddisfa il 4.5% del fabbisogno energetico italiano, allora vale ancora meno la pena di imbarcarsi su eolico e Fv che soddisfano lo 0.3% e lo 0.0001%...
      O no?
      Poi: che c’entra paragonare i consumi di petrolio con quelli di EE? Dal petrolio non si fa EE e da EE non si fa nulla che si fa col petrolio (p.es. benzina per auto)?
      Infine: Laponche sarà pure consulente del governo francese, ma questo non deve ascoltare molto i di lui consigli, alla prova dei fatti...

       fb

  • Di Renzo Riva (---.---.---.96) 11 ottobre 2009 17:55

    A proposito della libertà di stampa scambiata per licenza di mistificare la realtà.
    Articolo del prof. Battaglia al seguente collegamento

    http://www.ilgiornale.it/pag_pdf.php?ID=115420

     Mandi,

    Renzo Riva

    [email protected]

    349.3464656

    SE L’INFORMAZIONE FA TERRORISMO
    (Il Giornale, 8 ottobre 2009)
    di Franco Battaglia

    Cominciai a scrivere per il Giornale perché accadde che un giorno fui animato dalla imperdonabile presunzione di volermi rendere utile ad una società più ampia di quella, strettissima, interessata alla chimica teorica (che è la mia specialità). Accadde nel 2000, quando il Paese già da un pezzo era entrato nel pallone – era anzi ampiamente all’apice – dell’isteria da elettrosmog. Il quale, si temeva, diceva, e, soprattutto, scriveva, avrebbe mietuto leucemie infantili in abbondanza. Non conoscendo nulla sull’argomento ma avendo una figlia che era, allora, un’infante di 3 anni, sentii l’obbligo d’informarmi. In capo ad un’ora scoprii dalla letteratura scientifica disponibile che l’elettrosmog non esisteva.
     

    Animato dalla imperdonabile presunzione di rendermi utile, dicevo, sollevai il telefono e composi il numero della redazione di quello che, quando ero piccolo, ricordo, mio papà diceva essere il più stimabile quotidiano nazionale: il Corriere della Sera. La conversazione col capo-redattore si svolse nei termini seguenti:

    – Buon giorno, sono un docente del dipartimento di fisica dell’università di Roma; vi interessa un articolo sull’elettrosmog?

    – Eccome no, professore, è l’argomento del giorno… ma mi raccomando, non sia troppo tecnico… sa, i nostri lettori… Ma, piuttosto, cosa vuol scrivere?

    – Che l’elettrosmog non esiste.

    – Allora no, non ci interessa, grazie.

    • Ma come… le leucemie… i bambini…

    •  

    La circostanza era curiosa perché erano mesi che quasi quotidianamente tutti i giornali, nessuno escluso, denunciavano l’inquinamento elettromagnetico. Ancora più curioso il fatto che la conversazione si ripeté, esattamente nei termini sopra esposti, quando telefonai a Repubblica e alla Stampa. Quarto della mia lista era il Giornale; anch’esso, come tutti gli altri, avvertiva dei rischi da elettrosmog, ma quando gli telefonai ebbi tutt’altra accoglienza: si incuriosirono, mi chiesero di inviar loro l’articolo e lo pubblicarono. Da allora cominciò sia la mia collaborazione al Giornale, sia l’impegno del quotidiano a denunciare la frottola-elettrosmog. L’impegno durò per mesi anche perché, nel frattempo e con mio stupore, anziché rivedere le proprie posizioni in merito, tutti gli altri quotidiani elevarono vieppiù il livello di allarmismo. A onor del vero, tutti fuorché Libero: ricordo ancora una lunga conversazione telefonica col vicedirettore Renato Farina che mi telefonò perché voleva apprendere come stavano i fatti. Gli raccontai, tra le altre cose, che trovavo strano che il Corsera avesse pubblicato un articolo ove riportava, completamente alterati, i risultati di ricerca del grande epidemiologo Richard Doll: questi aveva trovato che l’elettromog non esisteva, ma il più stimabile quotidiano italiano pubblicò esattamente il contrario. Raccontai a Farina che avevo pure telefonato a Doll, a Oxford, per avere conferma di quanto il Corsera aveva riportato: era tutto sbagliato, mi disse e mi scrisse Doll. Pur da collaboratore del Giornale, mi sembrò corretto che fosse il Corsera a smentire, lo contattai ma si rifiutò di pubblicare le dichiarazioni di Doll da me intervistato. Naturalmente il bravo Farina non si lasciò sfuggire l’occasione e mi chiese che inviassi a lui l’intervista a Doll, che fu così pubblicata da Libero.

     

    Per farla breve, a quel tempo sulla faccenda elettrosmog vi era da una parte il Giornale e Libero; dall’altra, a terrorizzare su un’emergenza – era venuto alla luce – inesistente per la scienza, il resto del gotha dell’informazione italiana, televisione inclusa.
     

    In prima linea c’era Rai3, sia nei Tg che in vari programmi tipo Report o simili. Ricordo ancora quando il Tg3 mi intervistò: avevo dichiarato alle loro telecamere che l’elettrosmog non esiste, ma con un appropriato taglia-e-cuci mandarono in onda una mia dichiarazione con l’esatto contrario di quel che avevo detto. Inviai una email alla povera giornalista che aveva realizzato il servizio, la quale mi rispose scusandosi ma anche dichiarando che non poteva farci niente.
     

    Quanto ai politici, c’era, da una parte, interessatissimo a far passare la frottola-elettrosmog, l’intero centro-sinistra (che era al governo). Con una sola eccezione: Umberto Veronesi, che però, allora, non era un politico ma “solo” il ministro della Sanità; essendo anche stimato oncologo, non aveva evidentemente alcuna intenzione, solo per compiacere i suoi colleghi di governo, di perdere la faccia predisponendo la prevenzione dai tumori tramite interramento delle linee di trasmissione elettrica (perché di questo – 60mila miliardi di lire – si trattava). Dall’altra parte c’era il centro-destra, all’opposizione, che navigava nella più assoluta ignoranza sulla questione, coi più che s’erano fidati di quel che avevano appreso dagli organi di – diciamo così – informazione. Quando la verità cominciò a emergere, una minoranza, più perspicace di tutti, osservò del rischio che, se avessero fatto propria la voce della scienza, il loro leader, Silvio Berlusconi, sarebbe stato oggetto di ulteriori pesantissimi attacchi (di cui certamente non sentiva il bisogno) di conflitto d’interessi: da proprietario di reti televisive era anch’egli responsabile di quell’inquinamento.

    Particolarmente interessante fu l’atteggiamento di Antonio Di Pietro. Per ragioni sulle quali è ora troppo lungo dettagliare, il senatore mi aveva contattato per chiedermi di aiutarlo nella stesura della voce protezione-ambientale del suo programma politico, dicendomi che intendeva porre, al centro dello stesso, la questione – a suo dire – morale. Onorato di tanta considerazione gli dissi di dubitare di intendermi io di questioni morali ma che, per quel che capivo, poteva forse interessargli la faccenda elettrosmog che, al di là dei 60mila miliardi di lire, stava impropriamente allarmando l’intero Paese, e che avrebbe potuto rassicurare, almeno lui – che non era col centrosinistra né possedeva impianti di emissioni di campi elettromagnetici – che l’elettrosmog non esiste. Mi rispose che non poteva farlo perché non poteva perdere voti e che avrebbe invece messo la lotta all’elettrosmog al centro del suo programma di protezione dell’ambiente. Sconsolato per la certezza di non intendermi affatto di questioni morali salutai definitivamente il senatore.

    Chiosa finale: NEL 2001 il centro-destra vinse le elezioni e nel 2002 il bravo Altero Matteoli, allora ministro all’Ambiente, pose la pietra tombale sulla questione in modo da evitare al Paese lo sperpero di 60mila miliardi di lire in interramento delle linee di trasmissione elettrica, una manovra che, anche se fatta, non avrebbe evitato neanche una leucemia infantile. Antonio Di Pietro, invece, assieme a Verdi, Rifondazione comunista e compagnia cantando, nel 2003 organizzò un referendum che, se fosse passato, avrebbe obbligato, comunque, l’interramento dei cavi elettrici e lo sperpero di 60mila miliardi. Gli italiani al referendum di Di Pietro neanche ci andarono.

    • Di Diana Sprega (---.---.---.217) 13 ottobre 2009 08:47

      Mi scusi, ma lei sta del tutto deviando il mio discorso iniziale.
      Io parlavo di pesca, parlavo di uno Stato che vuole potrebbe entrare a far parte dell’EU e che non si conosce tanto.
      Io non ho parlato di nucleare quindi Leipuò ben evitare di venirmi a dire che manipolo la realtà; quello che io stavo facendo era una panoramica, se lei ha a disposizione informazioni segnali le fonti - non segnali articoli di giornali che possono essere probatori come no-. Io le mie le ho segnalate.
      Non troverà nel mio articolo "il nucleare non va bene/fa schifo/ è inutile", nonostante lei si comporti come se io lo avessi scritto.
      In ultimo, se ci tiene a dimostrare l’inesattezza delle mie affermazioni tramite alcuni quotidiani dovrebbe proprio prendere due quotidiani diversamente schierati e confrontare come la notizia viene posta, segnalare solo alcuni articoli che portano acqua al proprio mulino non è fare buona informazione.

    • Di (---.---.---.221) 13 ottobre 2009 15:13

      Concordo col fatto che il discorso sia stato spostato dal suo vero scopo. Il tema centrale non è certo il dibattito sul nucleare, e neppure sull’idrogeno, né in Islanda né tantomeno in Italia. Mi è parso che un tema centrale sia piuttosto l’approcio culturale islandese ai moderni problemi climatici ed economici. L’Islanda è molto avanti (per i nostri parametri) in quelle che definiamo tecnologie "alternative", eppure la cultura islandese è tradizionalmente rigida, chiusa e conservatrice. Come mai?
      L’Islanda è il paese più devastato d’Europa Occidentale (da un punto di vista dell’impatto antropico sull’ecosistema). Immagino le sarà capitato di osservare le grandi distese spoglie e semidesertiche dei bassopiani interni, frutto di secoli di pascolo, solcate a volte dalle sottili strisce verdi dei (commoventi) tentativi di reinstaurazione della cotica erbosa, oppure i numerosi conoidi alluvionali alla base dei solchi creati dall’erosione meteorica del suolo privato della copertura vegetale.
      Quando i primi vichinghi (Norvegesi di lingua norrenica) arrivarono in Islanda, nell’VIII secolo, trovarono un ambiente disabitato, fertile e rigoglioso, ricco di faune e sopratutto di suoli fertili e profondi, fondamentali per l’agricoltura alle alte latitudini. Quasi certamente pensarono di essere stati molto fortunati, ed iniziarono ad avviare uno sfruttamento economico delle risorse dell’isola secondo la tradizione culturale norvegese, con allevamenti di bovini e di maiali (estremamente apprezzati dalle popolazioni norreniche). Tuttavia, essi non potevano rendersi conto che l’apparente relativa prosperità di cui godevano grazie alle risorse naturali si basava su un delicatissimo equilibrio sviluppatosi nel corso dei millenni, in uno degli ecosistemi più complessi e delicati del mondo. La prosperità delle prime colonie di agricoltori ed allevatori era infatti dipendente da due fattori, invisibili al momento: (1) l’instaurarsi dell’optimum climatico medievale (2) la presenza di suoli fertili di tessitura estremamente fine (< 0,06 cm), derivati perlopiù dall’alterazione di tephra accumulata per apporto eolico, ed evoluta lentissimamente nel corso degli ultimi 10.000 anni, quindi soggetti ad una fortissima erosione eolica/meteorica che divenne inarrestabile con la deforestazione operata dai primi islandesi.Nel giro di 50 anni l’isola divenne cronicamente soggetta a frane e smottamenti, più del 95% della copertura arborea sparì, ed entro 5 secoli dall’arrivo dei primi coloni la maggior parte del terreno fertile dell’isola era stato dilavato in mare dalle forti alluvioni causate dall’aumento di precipitazioni nella piccola età glaciale (1300 - 1860) combinato con la deforestazione e la rimozione del manto erboso. Nelle annate peggiori divenne impossibile persino la coltivazione sporadica dell’orzo e l’allevamento caprovino, e l’economia dell’Isola fu salvata solo dalla pesca e dall’importazione/esportazione (che avveniva solo tramite navi straniere per l’assenza di legno in loco).
      In sostanza i vichinghi norvegesi si trovarono senza saperlo a gestire uno degli ecosistemi più difficili ed instabili al mondo, la cui cura dovette essere attentamente pianificata nel minimo dettaglio, pena il disastro economico-sociale. I pascoli furono dichiarati "terra pubblica", e concessi in sfruttamento temporaneamente e con rigide regole, e le greggi caprovine vennero addirittura razionate tra i possidenti. A seguito di ciò l’Islanda fu l’unica delle tre colonie "estreme" (Vinlandia, Groenlandia e Islanda) a resitere fino ai giorni nostri (e anche in uno stato di relativo benessere). L’eredità culturale di questi processi è chiaramente ravvisabile nella mentalità conservatrice e socialmente "rigida" che contraddistingue ancora adesso molti Islandesi.Questo è il primo motivo per cui trovo improprio parlare di demagogia riguardo alle politiche energetiche innovative dell’Isola, dove semmai troverebbe terreno più fertile una demagogia di tipo conservatore, come la storia dimostra.
      Il secondo motivo riguarda l’insularità. Negli ultimi 30/40 anni, le scienze antropologiche (archeologia e linguistica in primis) hanno ampiamente dimostrato come nella maggior parte dei casi sia fondamentalmente improprio estendere un’analisi (specie se di tipo "processualista", come in questo caso) di un fenomeno culturale di carattere insulare ad una situazione più ampia ed interrelata come può essere la percezione culturale di determinate questioni (e in questo caso si parla di "energia" e non di nucleare specificamente) in una cultura di carattere continentale, come l’Italia. Tanto per fare un esempio, guardi i templi megalitici costruiti 5500 anni fa a Malta e si chieda perchè non è mai stato realizzato niente di simile nella ben più ricca penisola italiana, e trarrà buoni indizi anche su a cosa realmente potessero servire. La differenza fondamentale è quasi ovvia.
      Ovviamente questo non vale se quello che si intende fare è ragionare dal punto di vista sincronico della moderna società globalizzata, ma è mia opinione che questo sia al di fuori delle reali premesse dell’articolo in questione che, trattando fondamentalmente dei dubbi e delle riserve degli islandesi ad entrare in un’Europa di cui (ancora di più in seguito alla crisi economica) hanno sempre più bisogno, ma che sentono come lontana, e fondamentalmente aliena alla vera natura dei (grandi) problemi ambientali che essi sono atavicamente preparati ad affrontare. Si tratta fondamentalmente dello scontro tra la mentalità locale, "specializzata" di una piccola isola con la mentalità comunitaria (e generalista) della "grande isola" europea. In altre parole, la questione del nucleare in Italia c’entra come i cavoli a merenda.
      Il vero tema è l’Islanda, la sua immagine di sé e dell’Europa, e cosa noi possiamo imparare dal confronto con un popolo che se da un lato ha quasi sempre rifiutato ogni innovazione imposta dall’esterno, dall’altro ha sviluppato una mentalità sufficientemente aperta da finanziare ogni campo della ricerca da cui possano trarre elementi utili all’analisi comparativa del presente (come l’archeologia) o allo studio di nuove prospettive (come le energie alternative). Questo purtroppo accade in maniera molto minore in Italia, ma anche in Spagna, Francia, Inghilterra...

      Il punto centrale del discorso è la dialettica tra micro e macro cosmo, tra scelte "locali" e "globali", tra scelte a breve, medio, e lungo termine, tra insularità e globalità, e mi pare un argomento già di per sé degno di ampie argomentazioni.

      Se quello che le interessa è invece la (in)cultura mediatica del nostro paese, non vedo perchè non scrivere un articolo a parte, che, sono sicuro, riceverebbe molto interesse e relativi commenti.

      Tiziano Fantuzzi
      Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente
      Università Ca’Foscari
      Venezia

  • Di luca (---.---.---.207) 13 ottobre 2009 19:53

    Secondo me bisognerebbe citare due cose fondamentali quendo si parla di islanda e EU:

    1. la recente crisi economica che ha devastato l’Islanda, constringendola alla bancarotta e trasformando la moneta locale, la corona islandese, in carta straccia. Non so come siano i paramentri per l’ingresso nell’unione europea, ma credo che ora come ora l’islanda non abbia prorpio le carte in regola.

    2. L’iceland defence Force, ovvero un accordo militare che affida la protezione dell’isola all’esercito USA. Questo accordo è stato ridimensionato nel 2006 (se non sbaglio), ma è tutt’ora attivo

    non credo che questi due fattori permettano all’isola di entrare nell’EU 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares