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Vicenza Jazz New Conversations. "Nel fuoco dei mari dell’Ovest"

Continuano ad essere seguite ed apprezzate le New Conversations di Vicenza Jazz, festival longevo, giunto alla XVIII° edizione. Il filo conduttore scelto come sempre dal direttore artistico Riccardo Brazzale è l’occasione per indagare sulla scena jazzistica attuale.

“Quale spazio può avere il Jazz in una società come la nostra, in balia di una crisi che non è solo socioeconomica, ma è anche, soprattutto culturale?”, si domanda Brazzale sul finire dell’introduzione al programma, il quale guarda alla costa occidentale degli USA e al ‘colore spagnolo’, che continua ad inserirsi con forza nell’immenso Real Book di una musica sempre più popolare.

Tra i concerti visti da chi scrive, il più emozionante ed avvincente, forse, è stato quello di Henry Threadgill & Zooid al teatro Olimpico. Protagonista uno dei musicisti cosiddetti creativi, nato a Chicago nel 1944, il quale partecipò nel 1962-63 all’Experimental Band di Muhal Richard Abrams e prese parte ai primi lavori dell'’ACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), fondata a Chicago nel 1965 proprio da Abrams.

Il quintetto Zooid ha proposto una musica d’avanguardia che privilegia la composizione, piuttosto che il peregrinare privo di regole del Free Jazz. Inusuale, ma assai efficace, la scelta strumentale: oltre al leader, ai flauti traverso e baritono e al sax contralto, ha svolto un ruolo fondamentale Jose Davila al dispendioso basso tuba, alternato al trombone. Non c’era un contrabbasso, ma un violoncello suonato da Christopher Hoffman. Liberty Ellman creava delicate trame sonore alla chitarra elettrica, mentre Elliot Kavee manteneva saldo l’ensemble con la batteria, oppure inventava atmosfere misteriose utilizzando dei gong.

Musica ad ampio respiro, con un’ottima timbrica, morbida quando il leader soffiava nei flauti, più sanguigna nei passaggi al sassofono. Tuttora attuale, tanto da sembrare ben inseribile in qualsiasi periodo e contesto della vita sociale e politica, poiché ogni ascoltatore può associarla a ciò che sta vivendo di personale e/o collegarla ad una situazione generale.

Come spesso succede, il secondo concerto in scaletta della serata, troppo diverso dal primo, ha ridotto minuto dopo minuto la capienza della platea. Bisognerebbe eliminare le doppie esibizioni, che hanno il torto di diminuire la durata di ogni set? Per esempio, Threadgill ha sfiorato i 70 minuti, ma avrebbe continuato a suonare per lo meno un’altra mezzora, se non avesse dovuto lasciare spazio al trio Mintzer- Abercrombie- Vitous. Il loro concerto è parso un incontro per motivi di lavoro, più che per ricercare un nuovo progetto musicale. Bob Mintzer al sax tenore, John Abercrombie alla chitarra, Miroslav Vitous al contrabbasso, hanno architettato una lunga, inutile, Jam session, che non ha toccato il cuore degli spettatori, che si sentivano privati di un ascolto più durevole del primo gruppo.

È la regola dei due concerti di seguito: quando il primo entusiasma, mentre il secondo fatica ad ingranare, si preferisce abbandonare il teatro, per non perdere la gioia acquisita. Gli stessi musicisti non sembravano credere alla bontà del loro programma, insistendo in lunghi assolo e rifugiandosi in standard plurinterpretati senza aggiungere nulla di nuovo, come ‘My one and only love’ e ‘Stella by starlight’.

A 5 giorni di distanza, il teatro Olimpico ospita una serata dedicata in prevalenza alla musica classica, con due solisti di eccezione. Nella prima parte, il pianista romano Enrico Pieranunzi, ricordando la propria formazione classica, si è cimentato con due autori dell’epoca barocca, il buranello Baldassarre Galuppi (1706-1785) e il germanico Johann Sebastian Bach (1685-1750). Assieme all’orchestra del teatro Olimpico, diretta da Giuseppe Acquaviva, Pieranunzi ha eseguito il concerto n°5 in do minore di Galuppi e il concerto in fa minore BWV 1056 di Bach, con risultati apprezzabili per un musicista che solitamente è alle prese con l’improvvisazione jazzistica a fianco di musicisti epocali come il batterista Paul Motian, con il quale, assieme a Marc Johnson al contrabbasso, ha inciso un memorabile ‘Live at Village Vanguard’.

L’intesa tra solista ed orchestra è apparsa buona. A conclusione del programma, il pianista, da solo, ha eseguito una sua composizione dedicata a Domenico Scarlatti, delle cui musiche aveva inciso un interessante Cd in cui dopo un’esposizione tematica di diverse Sonate, dava vita a lunghe, originali, improvvisazioni. Nella seconda parte è salito sul palco il chitarrista di Barcellona Pedro Javier Gonzalez. Dapprima ha eseguito in solitudine 5 composizioni, alcune originali, altre tradizionali, tratte dal vasto repertorio di chitarra spagnola. Tra queste, ‘La leyenda del tiempo’, composta da Ricardo Pachori su un testo di Federico Garcia Lorca, e la famosissima ‘Malaguena’. Tecnicamente impeccabile, Gonzalez ha convinto sia nei momenti di estrema delicatezza, che in quelli ritmicamente assai impegnativi, evidenziando uno stile originale sul solco della tradizione flamenca. Eccellente l’interpretazione, assieme all’orchestra, del ‘Concierto de Aranjuez ‘(1939), di Joaquin Rodrigo (1902-1999), eseguito a memoria, alla fine del quale l’artista ha cercato in camerino di ritrovare il proprio equilibrio messo a dura prova dal sentirsi circondato dalla potente sonorità dell’orchestra. Applausi vivissimi e ripetizione del movimento più famoso.

L’accogliente piccola sala del moderno teatro Comunale ha ospitato due giorni dopo un tonico quartetto guidato da due ex-davisiani, il chitarrista Mike Stern e il sassofonista Bill Evans e completato da Tom Kennedy al basso elettrico e da Dave Weckl, un modello da inseguire per molti giovani che si accostano allo studio dello strumento, alla batteria. Un concerto gradevole, i volumi bene equilibrati, nel quale ogni musicista si è ritagliato ampi spazi solistici. Stern ha abbandonato le distorsioni hard-rock per percorrere una Fusion collegata al Jazz.

Particolarmente toccante, verso la fine del set, una ballad malinconica, sentimentale, nella quale Weckl ha usato a dovere le spazzole. Il batterista, forse con il passare del tempo ha abbandonato quel tipo di solismo che lascia senza fiato, quel drumming troppo ridondante e privo di pause, che faceva pensare più ad un’esibizione circense, che ad una ricerca timbrica. Ottima l’intesa con Kennedy, bassista puntuale, scatenato, ma misurato nell’utilizzo di effetti particolari per gli assolo. In forma, Evans, sia al tenore che al soprano, nei momenti in cui Stern improvvisava, utilizzava una tastiera per arricchire di colori il brano. Applausi dei numerosi fan, in gran parte chitarristi. Dopo il concerto i due leader erano felici e contenti di vendere e firmare i CD incisi con le proprie rispettive formazioni.

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