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United colors of blasphemy

Oliviero Toscani, il controverso fotografo dei jeans Jesus negli anni ’70, è tornato sulle prime pagine in questi giorni perché condannato a quattromila euro di ammenda per sue dichiarazioni in una intervista del 2014 del programma caustico La Zanzara.

Dichiarazioni che, paragonando l’iconografia cattolica barocca a quella di un club sadomaso e attribuendo a papa Wojtyla un atteggiamento omicida per il pubblico rifiuto del preservativo in tempi di Hiv, sono state ritenute passibili di integrare la fattispecie delle “offese a una religione mediante il vilipendio di persone”, ex art. 403 del codice penale. Reato sì depenalizzato e che prevede solo sanzioni pecuniarie ma che dal 2005 è stato esteso a tutela di qualsivoglia credenza, avendo la Corte costituzionale perso l’occasione di eliminare quello che è evidentemente un relitto di altre epoche nelle quali il “sacro di Stato” veniva ammantato di strumenti appositi di tutela.

E da quelle che dovrebbero essere altre epoche ben lontane dal contemporaneo stato laico e democratico sembrano invece scaturire le righe della decisione del giudice del caso Toscani. Ambrogio Moccia, già esperto di omicidio stradale, ravvisa nelle parole del fotografo praticamente le intenzioni di uno jihadista. Si mostra senza remore oltremodo scandalizzato dall’espressione “attaccato” rivolta da Toscani al crocifisso («è una manifestazione di profondo disprezzo per i valori del cristianesimo, una esternazione confrontabile solo al peggior linguaggio propagandistico di un predicatore del fondamentalismo islamista»), crocifisso nel quale identifica invece la «massima espressione del Dio trinitario e salvifico».

Grave persino la confusione fatta dall’imputato fra Bernardo e Bartolomeo, il vero e inimitabile santo dalla pelle scorticata. A proposito di iconografia vagamente dark, diciamo così prima che ci multino pure a noi.

Anche perché il giudice Moccia sembra aver ben chiara la linea da seguire come magistrato della Repubblica italiana, linea che alla separazione fra giustizia divina e terrena e fra giustizia italiana e vaticana non sembrerebbe dare poi gran peso. Presidente del Collegio giudicante su un noto caso di abusi su minori da parte di un sacerdote poi condannato, nel considerare vescovo e curia totalmente ignari delle violenze perpetrate da un loro sottoposto ha parlato o meglio scritto in sentenza di processo «disturbato» da un clima di «anticlericalismo tematico», clima senza «alcuna legittimazione storica», dato «l’atteggiamento da tolleranza zero della massima impersonificazione della Chiesa militante, cioè il Papa, verso i casi accertati di pedofilia». Ah beh, allora… Ci pensa Francesco.

Ma per tornare a Toscani, legittimo sia inviperito. Minaccia ricorsi, alla Corte costituzionale (ma non è possibile per il privato cittadino) e alla Corte Edu (ma dovrebbe prima esaurire i ricorsi interni). Il seguito giudiziale quindi, se ci sarà, resta avvolto nel mistero. Di sicuro le espressioni per le quali è stato condannato proprio grazie alla condanna stessa hanno avuto una eco e una diffusione maggiore, riprese tal quali persino da quelle testate che ne invocano la gogna, senza che nessuno abbia sottolineato ancora quanto il tutto sia paradossale. Dalla ingiustificata repressione della libertà di opinione alla corrispondente tutela forzosa di una supposta superiorità non solo morale del fenomeno religioso, in specie cattolico.

Ma del resto siamo nel paese dove per la massima corte amministrativa il crocifisso è simbolo di laicità, dove si può bestemmiare la Madonna perché non è divinità ma a lesionarne una statua oggetto di culto si rischiano fino a due anni di carcere, ma soprattutto dove il processo reazionario è in atto già da un po’ in un pressoché totale silenzio di dottrina e opinione pubblica.

Del 2017 è una sentenza, la 1952, della III sezione penale di Cassazione che ben al di là del caso singolo e riprendendo analoga statuizione del 2015 ha de facto e de iure reso impossibile qualsivoglia critica alla religione. Critica nella sostanza parificata al vilipendio tout court. Ci dice infatti la Suprema Corte che «in materia religiosa, la critica è lecita quando – sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione, mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudizio sommario e gratuito – manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione cattolica, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità, e diventi una mera offesa fine a se stessa». In soldoni, o si hanno alle spalle una robusta preparazione, magari un paio di lauree, un sondaggio Doxa e uno Istat, una sostanziosa bibliografia che nei secoli sostenga i propri generici enunciati o non si può aprire bocca senza commettere vilipendio.

Questo nei fatti è un balzo indietro nella tutela della libertà di espressione cha fa tornare a ben prima degli evocati da Toscani anni ‘60. Che fa a pugni con le garanzie costituzionali e sovranazionali. Che odora pesantemente di censura e che si appalesa in netta controtendenza rispetto alla abolizione del reato di blasfemia, abolizione raccomandata dall’Onu già dal 2014, avvenuta in sempre più numerosi paesi europei, ultima la cattolicissima Irlanda, incoraggiata dalla campagna alla quale partecipa anche l’Uaar #endblasphemylaw. Ma a quanto pare da noi i retaggi fascisti più o meno nascosti tra le pieghe dell’ordinamento sono tornati (o mai passati) di moda. E con prepotenza vengono applicati, ritenuti superiori a quelle libertà fondamentali di espressione, di coscienza e di pensiero che tutti, ma davvero tutti, dovremmo preoccuparci di difendere.

Adele Orioli

Foto: Leonora Giovanazzi/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

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