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Una sinistra avversione per la libertà di espressione

Figlio di un immigrato della Guyana, Trevor Phillips è uno dei più importanti leader antirazzisti del Regno Unito. Diventato presidente della commissione per l’uguaglianza razziale e i diritti umani, diede un contributo determinante all’approvazione della legge del 2006 che protegge da ogni discriminazione etnica o religiosa. 

Oggi presiede il consiglio di fondazione di Index on Censorship, un’organizzazione che si batte per la libertà di espressione. Fino a non molto tempo fa era una persona unanimemente stimata. Nei giorni scorsi, però, il partito laburista in cui milita da decenni ha deciso di sospenderlo. È accusato di “islamofobia”.

Ma cosa significa “islamofobia”? Bella domanda. Il partito laburista una risposta la dà, ed è questa:“l’islamofobia ha le sue radici nel razzismo ed è un tipo di razzismo che ha come bersaglio le espressioni di muslimness (‘musulmanità’) o di percepita muslimness”. È la definizione elaborata dall’intergruppo parlamentare di tutti i partiti e che è stata approvata, oltre che dai laburisti, anche dai liberaldemocratici e dalle liste scozzesi e gallesi. Ma resta una definizione controversa, contro la quale si sono da tempo mobilitati i laici inglesi, firmatari di una lettera critica insieme ad atei, cristiani, induisti, sikh e musulmani riformisti. La loro preoccupazione, più che giustificata, è che, così com’è formulata, qualunque critica a qualunque espressione di muslimness rischia di essere condannata come “islamofoba”. Anche quelle contro l’estremismo islamico.

Già due anni fa Phillips fu candidato a vincere il premio della commissione islamica per i diritti umani riservato, per l’appunto, al peggior islamofobo. Tanto per rendersi conto del livello del riconoscimento, tra i nominati c’era anche l’Ofsted, l’ispettorato sulle scuole private (quasi tutte religiose, quasi tutte finanziate dallo stato) che ha l’abitudine di non lasciar correre le macroscopiche lacune delle scuole islamiche; nel 2015, invece, il premio fu vinto dal Charlie Hebdo, due mesi dopo la strage. Phillips aveva detto chiaramente che la libertà di espressione comprende il diritto di “lasciare che le persone si offendano l’un l’altra”. Aveva inoltre citato un po’ troppo spesso lo scandalo di Rotherham: circa 1.400 minori (soprattutto bambine) abusati lungo due decenni senza che nessuno intervenisse, perché le autorità avevano paura che balzasse agli occhi l’origine etno-religiosa di gran parte dei violentatori. Infine, dopo aver promosso a lungo il multiculturalismo all’inglese, aveva fatto una decisa marcia indietro, sottolineando il pericolo che si stessero creando comunità separate. Una tendenza che, a suo dire, è particolarmente spiccata proprio tra i musulmani inglesi, che rischiano di diventare “una nazione nella nazione”. Dichiarazione che, sondaggi alla mano, non sembra poi così avventata. Lo è forse di più, per la sua ambivalenza, quella secondo cui “i musulmani vedono il mondo in maniera differente da noi”.

Nei giorni scorsi queste dichiarazioni sono riemerse e hanno portato alla sospensione dal partito. Dei tre candidati a guidare i laburisti al posto di Jeremy Corbyn, due non si sono pronunciati e una si è detta “turbata” dalle affermazioni di Phillips. Il portavoce del Consiglio musulmano britannico le ha invece definite tout-court “incendiarie” e molto simili agli slogan di estrema destra. Ma ciò per cui Phillips è stato più criticato è l’aver evidenziato che “l’islam non ha niente a che fare con la razza”, e che non si può quindi parlare di “razzismo” per chi attacca l’islam o i musulmani.

È un’affermazione che dovrebbe essere considerata una banalità. Ovviamente, esiste un fin troppo evidente odio anti islamico che può anche sfociare in veri e propri atti di terrorismo, come le stragi di Christchurch di un anno fa. Ma perché scomodare il razzismo? C’è veramente bisogno che un’etichetta come “islamofobia” copra un ventaglio di comportamenti che vanno dalla critica motivata all’attentato sanguinario? Non rischia di rappresentare una maniera un po’ strumentale e vittimista per rendersi impermeabili a qualsiasi osservazione? Per contro, assegnare un premio al peggior “islamofobo” non equivale a indicarlo come nemico pubblico numero uno ai terroristi islamici? Se fossero intellettualmente onesti, i leader dei musulmani inglesi dovrebbero per coerenza definire “razzista” anche il trattamento (ben peggiore) riservato agli atei nel mondo musulmano, o “laicofoba” l’aggressione a suon di pietre alle donne pakistane che lo scorso otto marzo manifestavano pacificamente per i loro diritti. Ma, guarda caso, non lo fanno.

La loro è una strategia che sfrutta efficacemente il dilagare del politicamente corretto, che pretende che ogni opinione che offende qualcuno sia bandita. Ed è spesso effettivamente bandita – con il risultato che l’offeso ha buon gioco a denunciare i pochi superstiti che non si autocensurano. Ma le tensioni covano comunque sotto la cenere e trovano sfogo senza freni inibitori e con accenti estremizzati sul web. Il politicamente corretto, ci piaccia o no, è soltanto un antidolorifico, un farmaco che non è in grado di debellare la malattia. Non abbiamo alcun bisogno di rendere ipersensibili miliardi di esseri umani. È infinitamente meglio avere un’umanità forte e consapevole.

A tal fine, sarebbe molto meglio se tutti, me compreso, evitassimo di usare certi termini. È decisamente più utile riservare il suffisso ‘fobia’ alle sole patologie mentali, lasciare il termine ‘razzismo’ all’avversione per i gruppi etnici, usare il prefisso ‘anti’ per definire ogni altra forma di contrapposizione ed evitare anche riferimenti al ‘semitismo’, perché esistono ‘semiti’ che non sono ebrei (e sono pure molto più numerosi). Il linguaggio è il più potente strumento di cui dispone la specie umana per costruire società migliori, e sarà più facile riuscirci se – come cerca di fare la scienza – si scelgono vocaboli precisi e inequivocabili, il più possibile semplici.

E sarà ancora più agevole raggiungere tale scopo se l’uguaglianza davanti alla legge diventerà la stella polare anche a riguardo delle nostre affermazioni. Le critiche non argomentate, se non diffamano o incitano alla violenza, devono poter sempre essere avanzate liberamente, ma un’opinione pubblica più preparata saprà riconoscerle più facilmente. In tal modo il dibattito pubblico migliorerà in qualità e ampiezza. Le nostre società hanno soltanto da guadagnarci.

Ma c’è una seconda riflessione da trarre da questa vicenda. Il partito laburista inglese, già accusato di non essersi scusato con gli ebrei e di essere un po’ troppo amico di Hamas e Hezbollah (senza ottenere per questo risultati elettorali apprezzabili), sospendendo Phillips sembra aver fatto una definitiva scelta di campo. Si conferma – e vale anche per noi europei, noi italiani- che non c’è agibilità partitica per chi critica l’islam (o qualunque fede, o qualunque ideologia) senza nel contempo demonizzare i musulmani (o gli appartenenti a qualunque altra comunità). Per il momento. È un vuoto di offerta politica laica che prima o poi sarà inevitabilmente colmato.

Raffaele Carcano

Foto: Heinrich-Böll-Stiftung/Flickr

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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