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Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici

Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici eccetera.

La Commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto.

Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi?

Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è internet, eccetera eccetera, il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.

E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia, ma non la sanno insegnare e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41 ed un imbecille di docente confessava come giustificazione: “Non riusciamo a farli studiare”. Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere” visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa.

Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo.

Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale.

La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale. Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo?

Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Ghandi, Soekarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge?

Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti, in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.

D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a sé stessa da almeno 60 anni. Si, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) ed il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla prima guerra mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.

Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un ette la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie.

Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?

E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina?

Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane. L’ elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medio evo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico?

E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo.

Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoa, ma non sarebbe più urgente ed importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente. Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come i terrorismo jhiadista.

Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in Storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di Economia, Diritto, Scienza della Politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia ed antropologia ed, in cambio una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi una idea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro, che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico , dedicando di tanto in tanto, qualche cenno di attenzione ai processi materiali.

Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno ide a di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)?
Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.

Già sento la risposta “dobbiamo rispettare i programmi ministeriali”. Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica ma di quella statale) un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati.

Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi?

Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “ di tirare quattro paghe per il lesso”, ma, se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la Storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.

Con la stima di sempre, vostro,

Aldo Giannuli

 
 
Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Marina Serafini (---.---.---.33) 2 novembre 2018 16:22
    Marina Serafini

    Applaudo e ringrazio per la schiettezza e la lucida analisi di una attualità che rimprovera se stessa senza muovere un dito per cambiare direzione. Sarebbe bello che questa voce assumesse la dimensione di un coro...

    Ci si lamenta di un impoverimento culturale che raggiunge livelli progressivi di antiumanesimo e intanto non si fa che consolidarlo attraverso la passività adeguante. Il macello della formazione ricade in quello dell’organizzazione sociale, intanto che quanto aveva faticosamente raggiunto il riconoscimento di "risorsa umana" è ripiombato nell’anonimo grigiore della già definita, e in quanto tale considerata, "mera forza lavoro". E sbiadisce il concetto tanto caro alla comunità europea di individuo come cittadino di una comunità, da educare alla conoscenza della tecnologia attualmente in uso, alla fruizione delle lingue, alla capacità di fare impresa di se stesso e di cooperare con gli altri cittadini con i quali è in lizza per realizzare una coesistenza migliore verso l’attuazione di una società in continua evoluzione.

    Queste erano le indicazioni dettate in ambiente comunitario quando l’illuminazione giunse a far comprendere che la circolazione delle merci e delle ricchezze richiedeva anche la comunicazione e collaborazione tra gli individui, riconosciuti come tali e in grado di rispettarsi tra loro. Per conoscenza e per competenza.

    Per non citare poi l’esigenza di trasmettere, ai cittadini del mondo-Europa, l’importanza delle metacompetenze...

    Parole affascinanti e assolutamente condivisibili, parole....

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