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Una manovra da governicchio e il ricordo del ’46

Il 27 ottobre di quell'anno, CGIL e Confindustria firmarono un patto che comportò, tra le altre cose, un aumento salariale immediato del 35% e l’introduzione della tredicesima mensilità per tutti i lavoratori. Fu l’inizio della nostra ripresa; il primo segno di una fiducia comune nel futuro del paese.

La manovra del governo Letta non piace a nessuno, ed è comprensibile: la perla dell’Imu, tolta e fatta rientrare cambiata di nome ed estesa agli inquilini, in particolare, è degna di una pochade

Non che fosse il caso di farsi troppe illusioni, ad ogni modo: non potendo indebitarsi oltre e con la pressione fiscale già altissima, qualunque altro governo sarebbe stato costretto a fare lo stesso gioco a somma zero.

Detto questo, ribadito che le entrate di un'eventuale più aspra lotta all'evasione fiscale andrebbero contabilizzate solo poi, dopo averle effettivamente riscosse, e rimandati i partigiani del ritorno alla lira a studiarsi quel che sta accadendo in Islanda, dove le cose stanno andando sempre peggio, resta che molto di quello di cui necessitiamo, e che Letta potrebbe iniziare a fare, non costerebbe nulla. Parlo di quelle liberalizzazioni (che non c'entrano nulla con le privatizzazioni) che sole potrebbero dare un poco d'aria alla nostra asfittica società. Parlo di quei cambiamenti strutturali nella pubblica amministrazione (e ancora: si possono fare senza dover mandare a casa proprio nessuno) che soli possono restituire produttività ad un settore che vale il 50% della nostra economia.

Interventi che non solo non compaiono nella manovra, ma di cui tutta la nostra politica bada bene di non parlare: disturbare le gilde (e la pubblica amministrazione nel suo complesso è la nostra corporazione più grande) nel nostro feudale paese conduce ad una rapidissima uscita di scena.

Una manovra da governicchio, insomma, come dice Camusso, ma pure fatta in un paese che solo governicchi può accettare; cui basterebbero poche novità per ripartire, ma che è abitato da una stragrande maggioranza di reazionari, dispostissimi a far rivoluzioni, piuttosto che cambiare.

In attesa che la politica trovi il coraggio di far quel che dovrebbe, sarebbe il caso che tanto i nostri leader sindacali quanto i capi di Confindustria ripensassero, piuttosto, a come si comportarono i loro predecessori in circostanze non troppo diverse da queste.

Non abbiamo le macerie degli edifici da sgomberare, oggi, ma non siamo messi molto meglio che nell’immediato dopoguerra, specie se si guarda a come sta il resto del continente. Le scelte sbagliate compiute negli anni ’80 e che ci troviamo oggi a pagare hanno avuto per la nostra società e la nostra economia conseguenze per il resto tanto gravi come quelle di una guerra perduta.

Negli anni ’70 eravamo il paese al mondo in cui più cresceva la produttività industriale. Da lì in poi ci siamo fermati, affidando alla sola moderazione salariale il compito di mantenere competitive le nostre produzioni. Non solo; ai bassi salari dei dipendenti, le aziende hanno fatto pagare il prezzo delle inefficienze di sistema che incontravano fuori dai loro cancelli. Si potrebbe dire, per fare un esempio di questa logica assurda, che le imprese, costrette ad usare i corrieri per il malfunzionamento delle poste, si rivalessero delle maggiori spese sostenute mantenendo bassi gli stipendi dei propri impiegati.

Così facendo siamo sopravvissuti malamente per un trentennio. Abbiamo però pure finito per strangolare il nostro mercato interno e costretto alla chiusura tutte o quasi quelle attività che non potevano contare sulla valvola di sfogo dell’esportazione. Ci siamo precipitati addosso la crisi ben prima che scoppiasse la bolla finanziaria.

Con il paese sull’orlo di una guerra civile (e questo, perlomeno, ancora non si sta rischiando), il 27 ottobre del 1946 CGIL e Confindustria firmarono un patto che comportò, tra le altre cose, un aumento salariale immediato del 35% e l’introduzione della tredicesima mensilità per tutti i lavoratori. Fu l’inizio della nostra ripresa; il primo segno di una fiducia comune nel futuro del paese.

Ovvio che non si possa fare nulla di tanto eclatante, oggi. Resta, però, che rimettere soldi nelle buste paga dei lavoratori sia una precondizione perché si avvii la ripresa. Qualcosa per cui dallo Stato, con sgravi fiscali, può oggettivamente arrivare solo un aiuto minimo, dato le condizioni dei nostri conti pubblici, anche se si potrebbe ipotizzare almeno una detassazione, totale o parziale, degli aumenti salariali. Toccherà alle imprese trovare quei denari e ai sindacati, che dovrebbero decidersi a tornare a fare davvero il proprio lavoro, il compito di stimolarle a farlo.

Imprese che se sono state capaci di affrontare aumenti drammatici dei costi di altri fattori produttivi, (pensiamo solo all’energia) riusciranno pure a restituire un po’ di potere d’acquisto a stipendi che si sono, di fatto, dimezzati o quasi nell’ultimo ventennio. Sindacati che però dovrebbero essere anche disposti a far fronte comune con le aziende per chiedere al resto del paese, dalla politica alla pubblica amministrazione, di ricominciare a muoversi.

Oddio oddio: un ritorno del corporativismo. No: solo il ricordo dell'articolo uno della Costituzione.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.62) 21 ottobre 2013 13:57

    L’autore critica coloro i quali credono che il ritorno alla lira possa favorire la ripresa italiana ("rimandati i partigiani del ritorno alla lira a studiarsi quel che sta accadendo in Islanda") e poi critica la moderazione salariale ("affidando alla sola moderazione salariale il compito di mantenere competitive le nostre produzioni").

    Dati i fattori di produzione che sono capitale e lavoro, è comprensibile che, non potendo (ne Stato ne imprese) incidere in alcun modo sul costo del primo (che è l’euro stampato dalla BCE) gli imprenditori (aiutati dalle riforme sul lavoro) cercano di tenere basso il secondo. 
    Dando un’occhiata al dato delle partite correnti dagli anni 70 in poi si noterà come, ogni volta che ci leghiamo ad un cambio fisso o quasi (dallo SME in poi) quel valore va in negativo. Ormai, anche la BCE ammette che la crisi dei PIIGS non è stata causata dal debito pubblico ma de quello privato (http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp130523_1.en.html).
    Per quello che sta succedendo in Islanda, le ho già risposto nel precedente articolo.

    PS: a mio umile parere non si dovrebbe scrivere di economia senza citare numeri e mostrare grafici.
  • Di Daniel di Schuler (---.---.---.51) 21 ottobre 2013 14:19
    Daniel di Schuler

    E incidere sull’efficienza del sistema paese?

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