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"Un prophète", la Francia ci regala un capolavoro

Il 28 febbraio, alla trentacinquesima edizione dei premi Cesar, il film candidato all’oscar "Un Profeta" di Jacques Audiard, ha trionfato vincendo nove statuette. Tra le altre, statuetta come migliore interpretazione maschile, aggiudicata al protagonista Tahar Rahim.

"Un prophète", la Francia ci regala un capolavoro

Il profeta è uno di quei film (rarissimi purtroppo) tanto complessi, articolati che necessiterebbero davvero di una penna più che esperta per essere recensiti. Io, penso, se mi ci mettessi, perderei particolari, citazioni, sfumature, sensi e sottosenti. Meglio astenersi e lasciare spazio a chi ne è in grado.
Come liberarsi però dalla tentazione di parlare del film più bello degli ultimi tempi? Impossibile, quindi, premettendo che la seguente recensione non aspira ad essere esaustiva, né professionale, vi racconto come ho visto il film che non dovreste mai perdere.
 
Un prophète è un film stupendo. Non v’è sbavatura, nessuna caduta di stile, nessun cedimento registico, niente di troppo né troppo poco. Reale quanto deve esserlo. Amorale come è giusto che sia un film che vuole solo rappresentare un’odissea umana senza nulla aggiungere né togliere a quello che già è.
 
La vicenda è quella di un giovane arabo di nome Malik che sconta sei anni in un carcere francese. È l’apologia di un essere umano solo, in un sistema che non si limita ad ignorarlo ma lo sfrutta con disumanità. Non c’è giustizia in questo in questo mondo (Malik capisce presto che l’autorità che dovrebbe tutelare i suoi diritti, è in realtà complice e subalterna alla criminalità). L’uomo è sottoposto alle più atroci scelte e situazioni. Costretto ad un terribile rituale iniziatico, che gli ruberà per sempre l’innocenza. Malik non sarà mai né cattivo né buono ma solo umano. Il regista riesce ad andare oltre il giudizio morale, per restituirci volti tanto sfaccettati da sfuggire ad ogni categorizzazione assoluta o schematica. Il protagonista in primis, pur compiendo azioni inequivocabilmente immorali, non smette di attirare da parte nostra una certa compassione o quantomeno comprensione.

Lo sventurato profeta, quindi, emergerà e sopravviverà, adattandosi ad ogni contesto. Soffrendo e introiettando le regole che governano la realtà che lo circonda. Tenendosi vicine le colpe come fantasmi contro la solitudine, riconoscendo l’amicizia quando arriva e schierandosi dalla parte giusta, al momento opportuno. Riuscendo, forse, a non vendere la propria l’anima.
Entra come uno qualsiasi nel carcere (non diverso dalle nostre città, per quelli come Malik), con scarpe lise e 50 franchi, ed esce con un dovere da compiere (per non svelare troppo), con una corte ad attenderlo, ma sempre camminando sui suoi piedi, come dire, sempre con i piedi per terra, metaforicamente e letteralmente.

Malik rappresenta in tutto la caparbietà, la capacità di adattamento, l’istino di sopravvivenza che fa a meno di ogni etica, che caratterizza tanta immigrazione che si riversa nelle nostre città e che è disposta a (sopportare) tutto per conquistarsi un piccolo posto in cui poter vivere degnamente, che non è altro che quello che farebbe ognuno di noi se si trovasse nella stessa condizione.
Un film che travalica i generi, perché il genere qui è dettato dalla storia, scarno teso e realistico.
Tahar Rahim è tanto naturale e vero da far impressione.

Con questo film, insieme al bellissimo (ma meno originale) "Welcome", a parer mio, la Francia si conferma vera interprete della realtà dell’immigrazione nei nostri paesi ricchi. Sembra l’unica sensibilità capace di cogliere il senso, la complessità e l’umanità dei continui incontri-scontri culturali-religiosi-sociali-etnici che avvengono nelle nostre città.

Oscar come miglior film straniero? Se lo meriterebbe tutto, quindi probabilmente lo vincerà qualcun altro.

 

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