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Trump e la Cina: un braccio di ferro lungo quattro anni

Il dossier “AMERICANA” realizzato congiuntamente da Osservatorio Globalizzazione e Kritica Economica arriva alla terza puntata, la prima pubblicata sulle nostre colonne, con questo ampio e approfondito articolo di Gino Fontana, che traccia un bilancio dei rapporti tra Usa e Cina nell’era Trump.

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Uno spettro di aggira per gli Stati Uniti, lo spettro delle elezioni presidenziali. Quattro anni fa, in pochi avrebbero scommesso sul successo di Trump e il giorno dopo la vittoria dei repubblicani, molti si sono chiesti che ne sarebbe stato degli Stati Uniti d’America. Quattro anni di amministrazione Trump hanno portato a rivedere le priorità e gli interessi internazionali della Casa Bianca. In questo articolo, cercheremo di analizzare i quattro anni di politica estera dell’amministrazione Trump prendendo in considerazione i rapporti con un altro grande Paese, la Cina. 

Cina e Stati Uniti non sono solamente legati da rapporti economici, ma rappresentano due superpotenze in grado di proiettare la loro influenza oltre i propri confini. Entrambi rappresentano un terzo del prodotto interno lordo mondiale. Pechino e Washington sono anche i maggiori investitori in spese militari, nonché i due maggiori Paesi che emettono CO2. Come già trattato in precedenti articoli, i rapporti sino-americani stanno definendo la natura dell’ordine internazionale del XXI secolo. Esistono molte opinioni differenti in merito all’evoluzione dei rapporti tra Pechino e Washington. Alcuni accademici parlano del modello “Chimerica”, sottolineando come il fattore dell’interdipendenza sia peculiare nelle relazioni tra i due giganti. Altri invece, riprendono la teoria della “trappola di Tucidide” sostenendo che le due superpotenze sono destinate allo scontro o ad una nuova guerra fredda. Come cita Mario Del pero in Ispi, report four years of Trump 2020, si tratta di un bipolarismo spurio, nel quale vi è una distribuzione di potere asimmetrica con la predominanza di un polo (quello a guida americana) sull’altro. Tuttavia, Pechino rimane in grado di sfidare la leadership di Washington, se non globalmente, almeno in alcune aree strategiche come la zona Asia-Pacifico. 

Come si sono evoluti i rapporti sino-americani durante questi quattro anni di Trump? Innanzitutto, molti si sono chiesti se Trump agisca in modo imprevedibile perché incapace di comprendere la complessità delle relazioni internazionali, oppure se questa imprevedibilità faccia parte di una strategia vera e propria, una dottrina Trump. C’è tuttavia, ancora molta confusione su come definire la sua politica estera. Definire una dottrina internazionale, significa fissare le linee guida della propria politica estera, in modo da guadagnare il consenso dell’opinione pubblica, sia interna che internazionale, persuadendo quindi della legittimità e della bontà della propria filosofia internazionale. Come scrive Michael Anton nel suo articolo The Trump Doctrine, An insider explains the president’s foreign policy, Trump non è né un neoconservatore, né un paleoconservatore e nemmeno un realista tradizionale o un liberale internazionalista. La sua amministrazione ha autodefinito la propria dottrina come: “Principle Realism”.

Il Realismo, è una scuola di pensiero con diverse forme e diramazioni, ma gli elementi caratterizzanti della scuola realista sono: il contesto internazionale anarchico (dal greco ἀ (an) mancanza e ἀρχή (arché) governo, quindi mancanza di un soggetto superiore che detenga il monopolio legittimo dell’uso della forza). In questo contesto anarchico, ogni soggetto, quindi ogni Stato, cerca di massimizzare il proprio potere e la propria potenza cercando di soddisfare i propri interessi a discapito di quelli altrui. In questo campo si inserisce la dottrina dell’amministrazione Trump, caratterizzata da un vocabolario iper-semplificato e schematizzazioni binarie. Per l’amministrazione Trump, non vi può essere una convergenza tra interessi americani con quelli del resto del mondo. In questo contesto internazionale anarchico, vi sono differenze tra gli attori e solitamente i più forti prevalgono sui più deboli. Da qui deriva la preferenza dell’amministrazione Trump alla stipula di accordi bilaterali in cui gli Stati Uniti possono far prevalere il loro peso la loro potenza superiore. Infine, il protezionismo, le iniziative unilaterali come l’imposizione di dazi e le guerre commerciali diventano strumenti necessari per riaffermare il ruolo di potenza dominante e “Rendere Nuovamente Grande l’America”.

Alcuni liberali pensarono che con l’entrata della Cina nel 2001 tra le nazioni del WTO e i conseguenti benefici della globalizzazione, Pechino si sarebbe inserita nell’ordine capitalista, diventando così un sistema più aperto e democratico. Con somma delusione dei liberali, questa ondata democratica non prese mai piede e Xi Jinping poté quindi rafforzare la presa sul regime. Nonostante ciò, Pechino ha sempre cercato di seguire le regole internazionali e di stare al gioco, accettando la leadership americana e rispettando gli accordi internazionali, come ad esempio gli accordi sul clima di Parigi del 2015 o gli accordi sul nucleare iraniano dello stesso anno. Tuttavia, non ha mai perso occasione di sfruttare a proprio vantaggio le diverse falle del sistema internazionale, giusto per citare alcuni esempi: la manipolazione della valuta, i casi di concorrenza sleale, i sussidi statali ad importanti imprese nazionali. Trump e molti conservatori, hanno convenientemente trascurato il contributo della Cina alla stabilità e alla governance globali, preferendo azioni unilaterali e puntando il dito contro le violazioni del governo cinese a norme internazionali.

Ancor prima di Trump, il Presidente Obama, aveva tentato di inserire la Cina, e l’Asia in generale, al centro della propria politica estera con il famoso “Pivot to Asia”. Lo scopo era creare un mix tra maggiore collaborazione e maggiore competizione. Da un lato, Obama, si prodigò per integrare Pechino nell’ordine liberale con la stipula di accordi sulla diminuzione di emissioni di CO2, oppure puntando sulla collaborazione con Pechino su alcuni complicati dossiers, ad esempio il programma nucleare iraniano, e infine trovando un “modus vivendi” sulla manipolazione valutaria del renminbi. Tuttavia, le ombre della politica del contenimento erano sempre dietro l’angolo. Obama, continuando sulla stessa strada di Bush jr, ha portato numerose volte le Pechino, davanti le corti del WTO per violazioni di norme internazionali. Inoltre, uno dei punti fondamentali della politica estera di Obama, fu la stipula del TPP (Trans-Pacific-Partnership) con lo scopo di creare un’enorme area di libero scambio in modo da attirare quei partner commerciali che stavano cadendo sempre più sotto l’influenza di Pechino. Una delle prime mosse di Trump invece, fu quella di far uscire gli Usa dall’accordo TTP. L’amministrazione Trump, ha sempre visto la Cina come la principale minaccia alla sicurezza americana, definendola un free-rider, uno stato rapinatore che si impadronisce di segreti tecnologici, che viola i diritti sui brevetti e sulla proprietà intellettuale.

Come descrive Mario Del Pero, possiamo identificare tre punti chiave nella politica estera dell’amministrazione Trump: il suo iper-nazionalismo, il suo populismo e il suo crudo realismo. Il nazionalismo ha sempre bisogno di identificare nemici esterni e Trump in questo caso ne ha forniti in abbondanza agli americani: la carovana di migranti provenienti dal Messico, la bilancia commerciale della Germania e naturalmente la Cina. Nella National Security Strategy (NSS) del 2018 di Trump, La Cina, insieme a Russia e Iran, è presentata come concorrente e sfidante del potere, dell’influenza e degli interessi americani. Un avversario in termini economici, politici e militari. Inoltre, il Pentagono, nella National Defense Strategy (NDS) del 2018 riporta la Cina come intenta a perseguire un programma di modernizzazione militare per ottenere l’egemonia nell’area indo-pacifico in modo da poter sfidare in futuro la leadership globale americana, rappresentando i questo modo una possibile causa di destabilizzazione dell’ordine mondiale (Insieme a Mosca).

Sempre secondo Mario Del Pero, in termini analitici possiamo dividere la politica di Trump nei confronti della Cina in tre elementi: Sicurezza, Economia, Politica. In termini di sicurezza, Trump, ha seguito le orme dei suoi predecessori, rafforzando ed espandendo la sua rete di alleanze bilaterali nella regione. Riaffermare le alleanze tradizionali rappresenta un tentativo da parte degli Stati Uniti di riavvicinare quei Paesi che si trovano al centro degli interessi commerciali di Pechino, cercando in questo modo di persuadere quest’ultima ad abbandonare le sue ambizioni di espansione. Trump ha promosso un’intensa campagna pubblica contro l’iniziativa cinese della “Belt and Road Initiative”. Il Presidente e il Segretario di Stato, hanno frequentemente dichiarato quanto la BRI sia un’iniziativa che mira a rafforzare l’influenza cinese globale a discapito della libertà di azione dei Paesi coinvolti.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, Trump non si è risparmiato a dichiarare guerre commerciali alla Cina, iniziando con l’imposizione di tariffe, poi contro-tariffe che sono durate circa due anni a partire dal 2018. La riposta di Pechino non si è fatta attendere, con l’imposizione di tariffe del 25% su molti beni americani. Una tregua parziale è stata raggiunta a partire dal 2019, caratterizzata da numerose negoziazioni e accordi sul mercato globale e sulle supply chain, arrivando poi ad un parziale armistizio all’inizio del 2020. Le guerre commerciali sono strettamente legate alle dispute sul trasferimento di tecnologie e alle violazioni cinesi dei diritti sui brevetti e sulla proprietà intellettuale. Esemplare è il caso Huawei, il colosso delle telecomunicazioni cinese che a detta di Trump, rappresenterebbe uno strumento di politica estera in mano a Pechino con l’obiettivo di minacciare la sicurezza degli USA e dei suoi alleati. Washington ha imposto numerose restrizioni all’acquisto di prodotti Huawei e più generalmente all’accesso alle tecnologie sviluppate negli Usa. 

Politicamente, l’amministrazione Trump ha cavalcato la paura generale nei confronti della Cina. Per citare un esempio, ha più volte puntato il dito contro gli studenti cinesi accusandoli di essere potenziali agenti del regime e ladri di segreti tecnologici americani e del know-how. Sullo stesso piano, anche il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio ha accusato gli Istituti Confucio presenti in America di essere centri finanziati dal governo cinese.

Lo spettro delle elezioni incombe ed a sfidare il Presidente uscente vi è l’ex senatore del Delawere, nonché già vicepresidente durante il secondo mandato di Obama, Joe Biden. Stando a quanto dichiara Biden, se dovesse essere lui a prevalere, ci sarebbe un ritorno degli Stati Uniti al multilateralismo dell’era Obama, con la volontà di riaffermare i valori democratici in campo domestico e riguadagnare la credibilità perduta, riportando così Washington alla guida della comunità internazionale. Tuttavia, rimane la probabilità che venga preservata la linea dura nei rapporti con la Cina, ora che Trump ha messo fine a quarant’anni di amministrazioni democratiche e repubblicane che hanno tentato in ogni modo di incoraggiare l’integrazione tra Pechino e Washington.

Fonti

  1. La Trumpnomics ha funzionato davvero? – di Andrea Muratore
  2. La Cina assedia l’egemonia statunitense – di Davide Amato
  3. Trump e la Cina: un braccio di ferro lungo quattro anni – di Gino Fontana

“Americana”, il dossier congiunto di Kritica Economica e Osservatorio Globalizzazione, è realizzato col patrocinio dell’associazione culturale “Krisis“.

L'articolo Trump e la Cina: un braccio di ferro lungo quattro anni proviene da Osservatorio Globalizzazione.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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